Ci sono storie che si possono raccontare indicando le persone, mostrando i loro volti e facendoli parlare. Poi ci sono quei racconti che non vorresti mai aver sentito. Storie che non puoi mai far conoscere perché te lo chiedono i protagonisti.

Un papà della provincia di Napoli mi chiama qualche giorno fa per chiedermi un consiglio su come fare ad iscrivere il suo bambino disabile nella scuola primaria. Sorpreso gli chiedo il perché di un tale ritardo nell’iscrizione ed il genitore mi spiega che in realtà, dopo un anno molto faticoso per il bambino, lui e sua moglie avevano deciso di iscriverlo in una scuola paritaria. Lì avrebbero forse trovato maggiore attenzione ai bisogni del loro piccolo.

L’amara sorpresa del rifiuto della scuola paritaria ad accogliere il bambino era sopraggiunta proprio qualche giorno prima della nostra telefonata. Come spesso accade, la scuola in questione, resasi conto delle difficoltà del bambino in un colloquio iniziale, si era dichiarata inadeguata ad accoglierlo. La sorpresa più amara per questi genitori, colpevoli solo di cercare per il loro bambino una condizione di vita scolastica più serena, intanto era venuta dal rifiuto che anche le due scuole pubbliche del suo Comune di residenza avevano opposto alla nuova richiesta di iscrizione.

“Gli organici sono già determinati, le classi al completo, provi da un’altra parte e se avete scelto di andare via dalla scuola pubblica che ci tornate a fare”, le frasi che hanno accompagnato il pellegrinaggio di questi genitori rei di cercare per il loro terzo bimbo, il più fragile di tutti, un sorriso accogliente dalla scuola della Repubblica italiana. Di norma queste telefonate terminano sempre con il mio rassicurante e fermo invito ad insistere per iscrivere il loro bambino nella scuola pubblica.

In questo caso un’obiezione altrettanto ferma mi è venuta dal papà che, dopo avermi raccontato di lavorare da molti anni in nero, mi ha sussurrato, spaventato, che lui e la moglie temevano di perdere i figli se avessero alzato troppo la voce. Proprio così, di perdere i figli. “Dottore, lei capirà, dopo quello che è successo in quel paese, va a finire che la scuola se protestiamo ci manda gli assistenti sociali a casa e scoprono che io, con tre figli, non ho un reddito ufficiale! Se ci levano i nostri bambini come potremmo vivere”?

Mentre mi diceva queste cose, io ho provato ad immaginare una risposta utile e sperato di avere un consiglio efficace. Non avevo risposte e non avevo consigli. Solo un genitore in lacrime dall’altra parte del telefono che mi chiedeva di rimanere anonimo.

Dopo aver riattaccato la cornetta, ho maledetto l’impegno al silenzio che avevo promesso. Poi ho iniziato a scomporre le responsabilità e a moltiplicare la rabbia. È difficile continuare a lottare se vivi nella provincia metropolitana di Napoli, lavori al nero perché sei obbligato, hai famiglia e tre figli di cui uno disabile e speri che la sua vita possa scorrere delicatamente. Ho scelto il silenzio sui protagonisti di questa storia che ho ovviamente sentito ancora nei giorni successivi. È un silenzio che mi riempie di vergogna.

Scusatemi se non posso fare niente, anzi, perdonateci se seguitiamo a far finta di niente.

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