È arrivato anche l’ultimo verdetto sui fondi della Lega. La Cassazione ha confermato la sentenza di non luogo a procedere per l’ex leader della Lega, Umberto Bossi, e per suo figlio Renzo nell’ambito del filone milanese del procedimento. Per il senatur e suo figlio non ci sarà dunque alcun nuovo processo, dopo che la Suprema Corte ha respinto il ricorso della Procura di Milano, che chiedeva di estendere anche ai due Bossi la querela presentata dal leader della Lega Matteo Salvini nei confronti del solo ex tesoriere Belsito, accusato di appropriazione indebita in merito alla vicenda della truffa elettorale. La Suprema corte, inoltre, ha respinto il ricorso e confermato la pena in Appello a Belsito, condannato a un anno e otto mesi di reclusione, con pena sospesa, dalla Corte di Appello di Milano il 23 gennaio scorso.

Le accuse al Senatur e all’ex tesoriere – I tre erano tutti imputati per appropriazione indebita: secondo l’accusa hanno usato soldi pubblici per spese personali: dalle multe, alla biancheria, dal dentista alla laurea. In secondo grado solo l’ex amministratore era stato condannato a un anno e otto mesi, con pena sospesa, dalla Corte d’appello di Milano, che il 23 gennaio scorso aveva invece pronunciato sentenza di non luogo a procedere per Umberto Bossi e il figlio Renzo. Questo perché l’ex ministro dell’Interno e segretario del Carroccio, Matteo Salvini. aveva presentato una querela ad personam, nei soli confronti di Belsito salvando di fatto dalla condanna i due Bossi. Le nuove norme sull’appropriazione indebita approvate dal governo del Pd – nel frattempo modificate su input del guardasigilli Alfonso Bonafede – prevedevano infatti la necessaria querela di parte per perseguire quel tipo di reato.

Nei confronti del fondatore del partito e del Trota aveva fatto ricorso in Cassazione la procura generale di Milano, mentre Belsito aveva impugnato la sua condanna e ricusato gli ermellini. La presidente della II sezione Mirella Cervadoro oggi ha comunicato ai legali di parte la bocciatura dell’istanza di ricusazione fatta da Belsito e così i giudici sono entrati in camera di consiglio. Secondo la procura generale di Milano la querela presentata dal segretario del Carroccio andava estesa anche al fondatore del partito e al figlio. Mentre a luglio l’accusa, sostenuta dal procuratore generale della Cassazione Assunta Cocomello, aveva chiesto la conferma del verdetto di secondo grado di non luogo a procedere. Nelle motivazioni i giudici avevano scritto che Bossi non poteva disporre dei fondi a suo piacimento.

Il patto che aveva salvato i due Bossi dalla condanna – Come aveva raccontato Ilfattoquotidiano.it, quindi, il Carroccio aveva graziato i Bossi, rispettando il patto firmato quattro anni fa: una scrittura privata impegnava infatti l’ex vicepremier a tutelare il padre della Lega. Un impegno messo nero su bianco il 26 febbraio del 2014 e sottoscritto da Salvini, dall’allora segretario amministrativo Stefano Stefani, da Bossi e dallo storico avvocato del Senatùr, Matteo Brigandì. In quattro fogli si firmava la pace tra vecchia e nuova Lega: Brigandì rinunciava a rivendicare una parcella milionaria per aver difeso il partito dal 2000 al 2013 e in cambio l’attuale segretario sottoscriveva – tra le altre cose – il seguente impegn : “Il procedimento penale pendente avanti il tribunale di Milano ove Bossi è difeso da Brigandì, non avrà, da questo momento, alcuna interferenza da parte della Lega che non intende proporre azione risarcitoria nei confronti di alcuno dei membri della famiglia Bossi”.

Le motivazioni dei giudici di primo grado: “Bossi consapevole concorrente” Nelle motivazioni della sentenza di primo grado i giudici bollarono Bossi come “consapevole concorrente, se non addirittura istigatore, delle condotte di appropriazione del denaro” della Lega Nord, che era proveniente “dalle casse dello Stato”. Appropriazioni “per coprire spese di esclusivo interesse personale” suo e della sua “famiglia”. Condotte portate avanti “nell’ambito di un movimento” cresciuto – scrivono i giudici nelle motivazioni della condanna a 2 anni e 3 mesi – “raccogliendo consensi” come opposizione “al malcostume dei partiti tradizionali“. Nelle motivazioni della sentenza di secondo grado, la corte d’Appello ribadisce che il segretario di un partito non può disporre “a suo piacimento” dei fondi versati dagli associati o erogati dai presidenti di Camera o Senato come “rimborso delle spese elettorali”.

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