Sì alla Gronda e al Tav, no alla revoca delle concessioni. Riforma della giustizia sì, ma “ricominciando la discussione” e “costruendo un metodo sul quale si valutano distanze e punti di contatto solo dopo esserci confrontati“; decreti sicurezza? Tutto da azzerare. Le prime uscite dei neoministri del Partito democratico sono fumo negli occhi degli neo alleati Cinque Stelle nel governo che, nelle speranze di entrambi, dovrebbe durare altri tre anni. I dem, però, sono su posizioni più leghiste che movimentiste, soprattutto sulle grandi opere e con buona pace degli auspici di Conte. “Palazzo Chigi non sia più il Vietnam di un’alleanza”, aveva avvisato il premier re-incaricato, chiedendo “leale collaborazione” tra M5S e Democratici. Dietro l’auspicio, una preoccupazione costante: far dimenticare e archiviare quattordici mesi di guerra civile nel precedente governo. Ora però sembra che dovrà subito ricominciare le sue opere di mediazione che lo hanno contraddistinto nei suoi primi 15 mesi da premier.

A 24 ore dal giuramento alcune sortite dei ministri del Pd remano nella direzione dell’attrito su campi sensibili come la giustizia e le infrastrutture. Al punto che il leader M5S Luigi Di Maio, dando la linea ai suoi ministri, ha ammonito: “Non voglio conflitti, vi prego di non rispondere alle provocazioni ma dire al Pd di non comportarsi come la Lega”. Sull’altro campo diverse fonti accreditano un crescente nervosismo anche di Nicola Zingaretti verso certe prese di posizione dei suoi ministri che segnano i primi attriti dell’esperienza di governo giallorosso che fanno il gioco di Matteo Salvini, che dagli schermi de La7 subito infierisce: “Vedete, già litigano su tutto”.

Che cosa è successo? All’indomani del giuramento è stato il neoministro delle Infrastrutture Pd, Paola De Micheli, a rompere l’argine, intervenendo su Tav, Gronda e concessioni autostradali; che son poi i temi-pretesto che hanno portato alla fine della maggioranza gialloverde. De Micheli a La Stampa ha certificato la sua distanza siderale dal predecessore Danilo Toninelli (non dai Cinque Stelle) e ha annunciato la strada delle revisioni delle concessioni anziché la revoca, “come è scritto nel contratto M5s-Pd”. Il Ponte Morandi? Sulla questione il ministro ha glissato. Ma nella giornata di ieri a twittare era stato il vicesegretario del partito Andrea Orlando: “Il Pd vuole che i responsabili del disastro del Morandi siano colpiti e che le rendite ingiustificate siano cancellate. Con delle sentenze e dei provvedimenti. Non con dei tweet”. Eppure non era sfuggito a nessuno il richiamo che lo stesso capo dello Stato Sergio Mattarella aveva fatto nel giorno della commemorazione del 14 agosto, quando senza fare nomi Sergio Mattarella in persona puntò il dito contro la “brama di profitti”. Non solo. A Genova ci sono 74 indagati (tra cui ex ad di Autostrade Giovanni Castellucci) più due società (Autostrade e la controllata Spea) e l’inchiesta dovrebbe essere chiusa entro pochi mesi. E c’è una perizia dei consulenti del tribunale che hanno sottolineato come “gli ultimi interventi di manutenzione ritenuti efficaci risalgono a 25 anni fa”.

L’orticaria però si diffonde anche su altri temi spinosi, a partire dalla giustizia. La riconferma del ministro Alfonso Bonafede sembrava il viatico per la prosecuzione del dossier su giustizia e intercettazioni, sempre sgraditi al Carroccio. Ma il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, cui Bonafede era succeduto in via Arenula, mette dei paletti. Non dice no, ma prende tempo: “Non si può pensare – spiega alla Stampa – che un nuovo governo prenda per buono un testo che è stato costruito da due forze politiche che non ci coinvolsero minimamente, e di cui una era la Lega. È ragionevole che si ricominci la discussione”. La prescrizione che entra in vigore dal primo gennaio? “Credo che la drastica cancellazione della prescrizione sia un errore, ma dentro un percorso processuale si possono trovare equilibri compensando con altre garanzie. Ma, ripeto, è sbagliato pensare a una discussione senza prima sedersi a un tavolo”. Più tardi il vicesegretario del Pd ha puntualizzato a ilfattoquotidianno.it: “Costruiamo un metodo sul quale si valutano distanze e punti di contatto solo dopo esserci confrontati. Non si mandano messaggi a distanza – ha detto – Prima di dare valutazione sulla riforma bisogna capire il percorso per cui si è arrivati a determinate scelte“.

L’immigrazione e la sicurezza sono il terzo campo minato sui cui muove i passi il Conte-bis. Non è un mistero che il Pd voglia azzerare i decreti di Salvini e che i Cinque Stelle vorrebbero invece toccare il meno possibile, come reso evidente dalle dichiarazioni di Di Maio nel rivendicare le scelte del governo che fu. Sul punto è intervenuta, senza entrare nella dialettica dello scontro, il neoministro Luciana Lamorgese. A livello generale l’idea è di ripartire dalle osservazioni dal Capo dello Stato, che ai primi di agosto firmò il decreto Salvini bis ma evidenziando “rilevanti criticità” sulle multe alle ong, ribadendo la necessità che permanga “l’obbligo di salvare le persone in mare”. Mattarella aveva rimesso a Parlamento e Governo l’individuazione dei modi e dei tempi di un intervento normativo in materia.

La Lamorgese, spinta anche dal caso Alan Kurdi che è un primo test sul nuovo corso, si è attenuta a una linea prudente rispetto al passato. Non sarà uguale a quella del predecessore, ma deve fare i conti con un’opinione pubblica nettamente schierata sul tema. Dunque, niente porti aperti in maniera indiscriminata ma più umanità. Come realizzare questo mix, è la sfida che metterà alla prova i due azionisti di Conte. L’ex presidente Matteo Orfini per esempio chiede già dove sia la discontinuità se non vengono fatti sbarcare i migranti della Alan Kurdi. Ma già si intravvede nell’economia e nella manovra 2020 una nuova tela che potrebbe sfilacciarsi e annodarsi. Se sarà un legame più stretto o qualcosa di più pericoloso lo diranno i prossimi mesi.

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