Proliferano e crescono, sono una nidiata in Italia: piccoli Trump, cloni del magnate e showman divenuto presidente degli Stati Uniti, arrivano al potere promettendo di fare cose sbagliate e puntualmente le fanno: con il mito dell’uomo forte al potere che non ha gli intoppi della democrazia, i monarchi sauditi, il generale golpista egiziano al-Sisi, l’autoritario ‘pan-turco’ Erdogan e, ovviamente, il punto di riferimento di tutti quanti, l’autocrate russo, il nuovo zar, Vladimir Putin. Pronti a dare il peggio di sé, in Italia ce n’è una nidiata.

Donald Trump è tutto contento di vederli crescere intorno a sé: Viktor Orban, che non si capisce bene se è mentore o discepolo di Steve Bannon con la sua democrazia illiberale; Joao Messias Bolsonaro, il più impresentabile di tutti, uno che neppure ci prova a non apparire omofobo, razzista, fascista; e, adesso, Boris Johnson.

Però, non facciamo d’ogni erba un fascio. Che, di tutti i “piccoli Trump”, il neo-premier britannico è, forse, il meno “trumpiano” di tutti, perché 800 anni di Magna Charta e qualche secolo di tradizione parlamentare e democratica qualche sedimento lo lasciano, pure negli individui più riluttanti a stare alle regole del gioco e più inclini a fare le scarpe al prossimo. Il che non gli ha però impedito di fare del suo esordio un “bagno di sangue” politico – il titolo è di Politico.eu -, “passando per le armi” tutti i ministri di Theresa May non allineati alle sue idee e costruendosi un governo multi-etnico e giovane, dove molti suoi sodali si portano dietro conflitti d’interesse e scheletri nell’armadio.

Ma Trump gli fa festa lo stesso: sono tre anni che aspettava questo momento, da quando, ancora in campagna elettorale per Usa 2016, tifava Brexit e voleva Johnson come sua “spalla” britannica. Tweet di giubilo e una telefonata, ovviamente “eccellente”, con il “grande” Boris. Poi, magari, s’accorgerà che, quando ci sono in gioco i loro interessi, i britannici sono coriacei e duri a cedere: una regola dello sport è di non portarsi mai un inglese all’ultimo rettilineo di una gara di fondo perché, se non lo stronchi prima, batterlo in volata diventa un problema.

Tanto più che Boris ha radici buone. Pier Virgilio Dastoli, il più stretto collaboratore di Altiero Spinelli al Parlamento europeo dal 1979 alla morte, nel 1986, ricorda che il padre Stanley, conservatore, euro-deputato dal 1979 al 1984, fu uno dei nove fondatori, il 9 luglio 1980, del Club del Coodrillo, una sorta di cenacolo europeista nato per iniziativa di Spinelli. In quegli stessi anni, Johnson figlio si faceva, invece, le ossa da euro-scettico nella sala stampa della Commissione europea a Bruxelles, dove rappresentava il Daily Mail e dove sedeva sempre in prima fila nei banchi a sinistra del portavoce. Lui ed io, che di solito gli stavo pochi posti più in là, entrambi giovani corrispondenti, ci contendevamo spesso la prima domanda; e le sue storie erano sempre acide e non sempre vere.

Come Derek Prag e altri conservatori britannici “europeisti”, papà Stanley era convinto sostenitore della necessità di passare dal sistema delle Comunità europee, fondato sui trattati di Roma, a un nuovo sistema fondato sul modello federalista pragmatico concepito fra le due guerre mondiali da alcuni autori britannici che avevano ispirato lo stesso Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nel redigere il Manifesto di Ventotene.

Nella prima legislatura del Parlamento europeo eletto a suffragio universale, Spinelli e i suoi sodali del club del Coccodrillo, dal nome del ristorante di Strasburgo dove si riunivano, convinsero l’Assemblea ad assumere un ruolo sostanzialmente costituente, al di fuori dei Trattati, per stendere un nuovo Trattato globale e coerente da sottoporre direttamente ai parlamenti nazionali, chiedendo loro di discuterlo e di ratificarlo. Il progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea fu approvato a larga maggioranza dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984: votarono a favore una gran parte dei conservatori britannici, fra cui Stanley Johnson.

Che, adesso, è contento per il successo del figlio, ma non ne condivide l’approccio anti-Ue, come pure il fratello Jo, già viceministro conservatore, e la sorella giornalista Rachel, passata di recente addirittura nelle file del partito pro Ue radicale Change Uk. Da un Johnson che voleva un’Unione più federale a un Johnson che vuole portare la Gran Bretagna fuori dall’Ue. Il disegno del primo è finora fallito. Non è detto che quello del secondo riesca.

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