Portare via gli alcolici quando la festa inizia a scaldarsi troppo. Ossia, porre un freno a mercati che corrono in maniera esagerata per prevenire pericolosi eccessi. È uno dei compiti che, in tempi normali, è tradizionalmente assegnato alle banche centrali. Ma non viviamo in tempi normali. Così, ciò che queste stanno facendo è esattamente l’opposto: versare fiumi di alcol per mantenere viva una festa che non riesce ad animarsi. E quel che davvero preoccupa è che nessuno sembra sapere bene come e quando smettere. Giova ricordare che la Fed ha tuttora a bilancio titoli acquistati durante la crisi per 3.600 miliardi di dollari, mentre dopo il suo Quantitative easing il portafoglio Bce è infarcito di titoli per quasi 3.000 miliardi di euro. Il 2018 e il 2019 avrebbero dovuto essere gli anni della svolta, del graduale ritorno a condizioni monetarie “normali”, segno che la crisi iniziata nel 2008 era davvero, definitivamente, alle spalle.

Questo era quello che si leggeva su gran parte dei report di fine 2018, in cui si ipotizzavano due o tre rialzi dei tassi statunitensi nel corso del 2019 e ritocchi verso l’alto anche ad opera della Banca centrale europea. I messaggi dei banchieri centrali andavano del resto in questa direzione. Ma quando questo scenario ha iniziato davvero a prendere forma, la reazione dei mercati è stata brusca. Tra settembre e dicembre 2018 l’indice americano S&P500 ha perso il 20% del suo valore mentre, in Europa, l’Eurostoxx 50 ha accusato una flessione del 15%. All’inizio del 2019 le banche centrali compiono così una specie di inversione a “u”. Più concilianti verso i mercati, tolgono dal tavolo le ipotesi di rialzi dei tassi e, anzi, iniziano a prospettare nuovi tagli e la ripresa di programmi di acquisto di titoli. Sui mercati la festa ricomincia: dai minimi di dicembre l’Eurostoxx incamera un +19%, l’S&P500 un +30%.

“È eccessivo affermare che la Federal Reserve sia sotto una sorta di ricatto dei mercati ma è indubbio che questa lunga fase di politiche monetarie ultra espansive abbia rafforzato la dipendenza dei mercati dalle banche centrali”, spiega Alberto Gallo di Algebris, tra i primi a mettere in guardia dai rischi del “QE forever”, vale a dire dell’estrema difficoltà di interrompere politiche monetarie ultra espansive una volta avviate. “Le decisioni degli istituti centrali – continua Gallo – sono diventate l’unico faro a cui guardano i mercati che, in questo modo, non possono più essere ignorati quando si tratta di decidere le politiche monetarie”. Come sottolinea il responsabile delle strategie macro di Algebris, “questa trappola è stata creata dalle stesse banche centrali. Ma mentre negli Usa quantitative easing e tassi ai minimi storici hanno almeno avuto l’effetto di portare l’inflazione su livelli soddisfacenti, la Bce non è ancora riuscita a raggiungere questo obiettivo, anche a causa di un canale bancario meno efficiente che fatica a trasferire all’economia reale i benefici dei tassi negativi”.

Sta di fatto che mentre la Bce annuncia di avere allo studio un nuovo piano di quantitative easing (acquisto di titoli di Stato e societari “stampando” nuova moneta) la Federal Reserve torna a ridurre i tassi di interesse. “Guardando al quadro economico statunitense, il taglio della Fed è un controsenso”, fa notare Marcello Messori, direttore della School of political economy della Luiss, che aggiunge “il Pil Usa cresce dal 2009, la disoccupazione è ai minimi storici e l’inflazione su un livello adeguato”. Secondo Messori, la Fed risente anche delle pressioni che arrivano dalla Casa Bianca. Con i mercati in balia delle decisioni delle banche centrali, le capacità di condizionamento della politica sulle autorità monetarie si rafforzano, con effetti che possono spingere l’economia nel breve periodo ma che, la storia insegna, sono deleteri nel lungo. “L’atteggiamento della Bce è più comprensibile”, ragiona Messori, “l’economia dell’area euro cresce lentamente ed è in fase di rallentamento. L’inflazione rimane bassa e Francoforte deve sempre trovare una sintesi tra diverse esigenze delle differenti aree dell’Unione monetaria, che, spesso, non si muovono in sincrono. Ciò non significa”, conclude il professore, “che io non sia preoccupato per gli effetti che queste politiche potranno avere se protratte a lungo”.

Condizioni monetarie come quelle attuali su larga scala sono una situazione senza precedenti ed è difficile prevedere tutte le potenziali implicazioni degli effetti distorsivi che producono. Tuttavia, presto o tardi, il lato oscuro della moneta facile presenterà il conto. Tassi e rendimenti negativi sono una sorta di mondo alla rovescia. Pago per prestare soldi, vengo pagato per indebitarmi. Questa situazione favorisce lo sviluppo di “bolle” che possono potenzialmente riguardare svariati asset, da quelli finanziari (azioni, obbligazioni etc) a quelli reali (immobili e altro). Il denaro facile spinge le quotazioni e questo aiuta, naturalmente, chi possiede degli asset. In sostanza chi più ha, più ne trae vantaggio. Sebbene la Bce abbia tentato di ridimensionare il peso nell’aumento delle diseguaglianze (soprattutto sottolineando come mutui più convenienti agevolino in primo luogo famiglie meno abbienti). L’aumento delle diseguaglianze nutre i populismi, governi di questo stampo tendono a cercare di influenzare le banche centrali perché adottino politiche espansive e si instaura così un circolo vizioso.

L’effetto di “desertificazione” e appiattimento dei rendimenti, legato a massicci programmi di acquisto titoli scatena una caccia disperata. Se vuole strappare qualche punto percentuale di rendimento, chi investe è costretto ad aumentare drasticamente il livello di rischio del portafoglio. Uno degli esempi più eclatanti è quello dei leveraged loans, in sostanza prestiti concessi ad aziende già fortemente indebitate. Un mercato che, secondo dati di Moody’s, solo negli Usa vale oggi 1.200 miliardi di dollari, il doppio del 2010. In questo modo il rischio che grava su aziende finanziariamente deboli viene trasferito a mercato e risparmiatori.

La caccia al rendimento diventa poi una vera e propria lotta per la sopravvivenza per tutti quei prodotti finanziari che offrono ritorni garantiti, come nel caso di alcune polizze vita o di piani pensionistici diffusi soprattutto in Germania e Svizzera. Infine, un ambiente di tassi depressi falcia la redditività delle banche che, in queste condizioni, dall’attività di erogazione di finanziamenti ricavano poco o nulla. Si arriva così a situazioni paradossali come quella che si sta verificando in Germania dove banche e casse di risparmio iniziano a chiedere soldi ai loro clienti per depositare denaro.

Come se ne esce dunque? Come è possibile ridurre la dipendenza dei mercati e delle economie dalla “droga” delle banche centrali che, da sole, non sembrano in grado di interromperne la somministrazione? “In questi anni la politica monetaria è stata lasciata sola, gli istituti centrali si sono trovati a dover compensare la mancata o insufficiente azione dei governi per evitare il peggio”, spiega Messori. “Trump”, prosegue il professore della Luiss, “ha varato un piano fiscale ultra-espansivo, sbagliando però completamente la tempistica. Al di là di come si giudichi questo intervento, è avvenuto in una fase in cui l’economia era già surriscaldata. Quanto all’Europa, si è fatto davvero troppo poco visto che solo alcuni paesi hanno avuto politiche timidamente espansive”. Servono insomma investimenti e stimoli, solo in questo modo, le banche centrali possono iniziare a ridurre davvero il loro sostegno. Anche secondo Alberto Gallo è necessario che i governi facciano la loro parte, che affianchino l’azione delle banche centrali per fare in modo che l’economia riprenda a camminare sulle proprie gambe. “Gli stimoli fiscali aiutano ma non bastano, servirebbero anche misure per ridurre le diseguaglianze sociali e aziendali, ridistribuire ricchezza e migliorare la produttività”.

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