Scoprire che il sacro viene desacralizzato sconvolge e destabilizza. Ormai c’è poco di sacro nell’Occidente; dopo che Nietzsche ha sancito la “morte di Dio”, cioè delle grandi narrazioni della modernità, si è aperto lo spazio liscio del “tutto possibile” e della postmodernità. L’Italia aveva o credeva di avere ancora un angolino di sacro; un residuo di etica e di garanzia contro l’immoralità. Questo sacro era rappresentato dalla magistratura. Le inchieste e le intercettazioni di queste ultime settimane sconquassano anche questa certezza. Ciò che maggiormente colpisce è che, a parte alcuni episodi isolati, non si tratta di reati, cioè di isolate “mele marce” che possono annidarsi in ogni associazione, gruppo o consesso sociale; bensì di “intrallazzi di palazzo”, para-politica, intrighi o spartizioni di posti.

Ci sono magistrati non iscritti a nessuna corrente (cioè gruppi di potere a sfondo ideologico-giudiziario) che sostengono, anche pubblicamente, che gli uffici direttivi della giustizia sarebbero assegnati in ragione di una sorta di “manuale Cencelli” dell’ordinamento giudiziario. Tutto questo accade per la politica e i tanto vituperati “politicanti”.

Sono forse eretico, lo ammetto. Ma a me tutto questo non sconvolge, né dal punto di vista sociologico, né come ragione di decadimento del sacro della giustizia. Ripeto: ovviamente sintanto che non si cade in corruzione o altri reati. Se questi accordi e questa sorta di politica della giustizia accade come esclusivo movimentismo politico, ritengo sia del tutto normale. Spiego perché: la giustizia entra direttamente nella società e i magistrati decidono le politiche giudiziarie, ad esempio privilegiando alcuni ambiti particolarmente rilevanti per contrastare l’illecito che maggiormente infetta la società. Durkheim ha sostenuto che la giustizia serva per ricucire la ferita che l’illegalità ha prodotto nel corpo della comunità.

Ebbene: in questa funzione è necessario scegliere (tra le tante ferite) e questa scelta è strettamente politica, ovviamente da intendersi come politica giudiziaria. In questo è del tutto lecito e normale avere ricette ed idee differenti. C’è un però, e questo però è determinante: questo genere di scelta deve essere fatta alla luce del sole; il cittadino deve sapere e, eventualmente, poter dare le proprie indicazioni. La conseguenza non è rendere la magistratura qualcosa di ancor più astratto e fintamente indipendente. I vertici degli uffici giudiziari debbono essere responsabilizzati e in democrazia il sistema è semplice: la nomina da parte di autorità terze o l’elezione e, alla fine del mandato, poter verificare se la ricetta è stata realizzata.

Io credo che gli uffici giudiziari locali dovrebbero essere elettivi e quelli verticistici (della Corte di Cassazione, per intendersi) di nomina del Presidente della Repubblica, soggetto custode della Costituzione e dunque dell’unità dello Stato. Il Consiglio Superiore, da parte sua, dovrebbe continuare ad avere i compiti previsti dalla Carta Costituzionale, ma la sua formazione dovrebbe essere paritaria tra magistrati, membri di nomina politica e giuristi. Questa formazione non dovrebbe sconvolgere, atteso che, in seno all’Assemblea Costituente, era già un’idea forte e uno dei suoi principali fautori fu l’allora ministro della Giustizia Palmiro Togliatti. Nel lontano 2004 partecipai alla stesura di una proposta di riforma secondo queste linee guida.

Un’idea di questo tipo non toglierebbe nulla al sacro della giurisdizione; anzi ne restituirebbe valore e offrirebbe chiarezza e condivisione dei fini. Contro l’elezione o la nomina si oppone che la magistratura diverrebbe “dipendente” dalla fonte che la legittima. Ciò non è vero per due ragioni: la prima perché i singoli magistrati continuerebbero ad esercitare le proprie funzioni esattamente come adesso; la seconda perché ci sarebbe certamente maggiore indipendenza laddove non si conosce l’identità dell’elettore-cittadino (che è segreto) rispetto all’elettore-collega (cioè la corrente, fatta di persone ben identificabili).

L’indirizzo dell’ufficio potrebbe essere maggiormente legato al programma di politica della repressione del crimine proposta dal magistrato e che ha trovato l’appoggio della collettività; nulla di più. Peraltro questa riforma creerebbe una progressione di carriera capace di premiare i migliori e coloro che si sono distinti per maggiore efficacia nell’esercizio delle funzioni dello jusdicere. Il sacro del “fare giustizia” resterebbe inalterato, se non altro perché è la funzione che lo garantisce.

A questo proposito basta ricordare le parole di Leonardo Sciascia: “Prendiamo la messa: il mistero della transustantazione… il prete può anche essere indegno nella sua vita, nei suoi pensieri, ma il fatto che è stato investito dell’ordine fa si che ad ogni celebrazione il mistero si compia… e così un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi… il giudice prima può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra non più. E tanto meno dopo. Lo vede un prete che, dopo aver celebrato messa, si dica: chissà se anche stavolta la transustantazione si è compiuta? Nessun dubbio: si è compiuta”.

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