C’è una parola che non si osa pronunciare, forse nemmeno pare concepibile all’impatto con la drammatica vicenda di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che ha scelto di morire perché, dopo due stupri subìti a 11 e a 14 anni, il suo corpo e la sua mente non avevano più la forza né il desiderio di vivere.

Le parola è gratitudine, e so che suoni come un ossimoro in questo caso.

In rete, in tv, sui giornali si alternano i commenti e le esternazioni, accumunate per la maggior parte dal giudizio pesantemente negativo contro la sua decisione, contro lo stato olandese, accusato di aver praticato l’eutanasia (cosa non vera come spiega Marco Cappato, attivista radicale da sempre impegnato, insieme a Mina Welby e Beppino Englaro, nella civilissima lotta per l’autodeterminazione a morire con dignità), contro i suoi genitori che sono stati partecipi, alla fine, del suo volere.

“In questo caso, amare è lasciar andare”: è ormai pubblicamente nota la frase che Noa ha lasciato come commiato su Instagram: una frase piena di saggezza e in apparenza leggera, che echeggia la filosofia buddista impegnata a ragionare sulla pesantezza dell’attaccamento alle cose materiali e sulla ricerca di ciò che è, al contrario, essenziale per l’esistenza.

Una frase che contiene il concetto di amore, un amore che non stringe, che rifugge il possesso e il legame collusivo, e si esprime con l’aprire le braccia, per lasciare, appunto.

E’ la forma di amore più difficile, più rara, quasi insopportabile, perché dalla poesia alla musica passando per l’educazione e la cultura diffusa amore non fa rima con libertà, ma piuttosto con unione, vincolo, legame, obbligo, a seconda delle situazioni.

Ci sono molte soggettività dentro ogni persona e la prima che ho sentito vibrare in me, cercando di dare un senso allo sgomento che provavo mentre leggevo la storia di questa adolescente è quella di madre. Sono grata, da madre, alla madre di Noa per averla ascoltata e per avere affrontato l’orrore, indicibile, nel realizzare ad un certo punto che questa figlia non le sarebbe sopravvissuta, come è giusto invece che accada quando metti al mondo.

Sono grata a Noa perché ha reso pubblico, oltre alla sua sofferenza e alla sua malattia, il problema che non si vuole vedere: l’opinione pubblica oggi si divide infatti sul fine vita, sull’eutanasia, sulla morale e sulla speranza. Ma in questa storia la morte arriva inattesa e tragica perché all’inizio della vita di Noa è piombata la violenza più inaccettabile, seconda solo all’uccisione: lo stupro.

Sono milioni le donne nel mondo che almeno una volta subiscono l’onta della violenza sessuale, e la maggior parte di queste, per fortuna, sopravvive. Sappiamo però che questa violenza traccia una linea precisa: c’è una me prima e una me dopo quella violenza, perché essa segnerà tutta la mia esistenza successiva, nei rapporti con gli uomini, con le altre donne e con la realtà, perché comunque sarò per sempre quella stuprata, e ci vuole un grande lavoro su di sé per non restare inchiodate nella condizione di vittima.

Se sapremo aprire gli occhi sul motivo principale che ha causato la decisione di questa giovane, spezzata dalla violenza di un uomo nel suo corpo e nella sua mente, se sapremo attivarci, là dove siamo e lavoriamo, per sconfiggere la misoginia e la cultura dello stupro, allora forse sì: la morte di Noa avrà un senso e non sarà stata vana. Io la voglio celebrare così. 

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Quella di Noa è stata una terrificante discesa agli inferi

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