di Andrea Taffi

Luigi Di Maio esce indenne dal voto degli iscritti alla piattaforma Rousseau. L’80% dei votanti, infatti, dice che deve essere ancora lui il capo politico del Movimento 5 stelle. Il risultato era largamente atteso, soprattutto dopo che i vertici e gli altri importanti esponenti 5stelle avevano confermato la loro fiducia a Luigi Di Maio. Se poi si pensa che, data la struttura del Movimento 5 stelle, lo stesso Di Maio altro non è che espressione dei vertici e loro rappresentante, che il capo politico sia ancora lui o qualche altro (sarebbe, però stato interessante sapere chi) ha (secondo me) poca importanza.

Eppure, qualunque “cosa” politica sia il Movimento 5 stelle, è innegabile che esso abbia un comune con tutti gli altri partiti un elemento fondamentale in democrazia: il bisogno di voti, quelli che si prendono e quelli che si perdono. E il Movimento 5 stelle, con Di Maio capo politico, ne ha persi tanti di voti, troppi. Troppi per non far apparire la messa in discussione del leader una questione di fondamentale importanza e come tale da doversi gestire non col metro, tutto interno e privato, del Movimento 5 stelle, ma con quello tutto esterno e pubblico proprio delle tradizionali dinamiche politiche.

Di Maio ha fallito e ha sbagliato la campagna elettorale delle Europee. In un solo anno il “suo” Movimento, da primo partito in Italia è passato a essere il terzo, superato persino dal “nuovo” PD di Nicola Zingaretti. Quando si perdono le elezioni (soprattutto se in maniera così disastrosa) le dimissione del capo non sono una punizione, ma un’azione doverosa e conseguente alla necessità di salvare (ristrutturandola dai vertici) la forza politica sconfitta. Le dimissioni del capo sono la logica presa d’atto della volontà del proprio ex elettorato e devono essere l’abbrivio alla ricerca dei motivi di quella stessa volontà.

Visto poi che il Movimento 5 stelle è al governo e che il suo alleato ha avuto un autentico trionfo elettorale, mantenere al suo posto il leader che ha subito il tracollo di voti porta a chiedersi quale conseguenze avrà quella decisione non solo sulla tenuta, ma soprattutto sulla validità (in termini di bontà dei provvedimenti futuri) del governo. Perché d’ora in avanti (ancor più dopo il “bel gesto” di Matteo Salvini di accettare le dimissioni del viceministro Edoardo Rixi dopo la sua condanna) quando lo stesso Salvini passerà all’incasso dei provvedimenti che più gli stanno a cuore il Movimento 5 stelle che farà?

La conferma di Di Maio capo politico non mi sembra nel segno di quel ripensamento imposto da una disfatta elettorale. E non mi sembra nemmeno nel segno di una chiara e netta presa di posizione contro la nuova narrazione governativa, quella, cioè, che vuole che Salvini (forte del 34% dei consensi) detti l’agenda. Sostituire Di Maio avrebbe significato un cosa precisa: attendere la prima pretesa irricevibile di Salvini, rimandarla al mittente e far saltare il governo, passando all’opposizione, l’unica possibilità del Movimento 5 stelle di continuare a esistere.

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