“Ai genitori di Giulio dico di andare avanti per cercare la verità e ottenere giustizia, di non mollare, mai. Sono con loro, con la loro battaglia, senza esitazione. Giulio era un uomo di pace”. Giulio Regeni e Mahmoud Abu Zeid, meglio conosciuto col nomignolo di ‘Shawkan’, hanno diversi punti in comune, tra cui l’età, 31 anni e una differenza di pochi mesi, e una sconfinata passione per il proprio lavoro. Giulio, ricercatore universitario, è stato rapito il 25 gennaio del 2016 e fatto ritrovare cadavere nove giorni dopo, il 3 febbraio, lungo il ciglio dell’autostrada verso Alessandria d’Egitto. Addosso i segni di sevizie e torture – recentemente rivelate anche da un supertestimone ritenuto attendibile dalla procura di Roma – al punto da renderlo irriconoscibile anche per mamma Paola, il cui primo commento è stato ‘Sul corpo di mio figlio tutto il male del mondo’.

Il destino di Mahmoud, fotogiornalista egiziano, è stato diverso. Lui è ancora vivo, ma addosso porta i segni di cinque anni e otto mesi di carcere e l’accusa infamante di essere un terrorista. Il 14 agosto del 2013 il giovane fotoreporter si trovava in piazza Raba’a, ad est del centro del Cairo, per raccontare la manifestazione dei Fratelli Musulmani; protestavano contro il golpe messo in atto pochi mesi prima da Abdel Fattah al-Sisi, ex ministro della difesa. Il servizio gli era stato commissionato da un’agenzia inglese, la Demotix, e quel giorno fu testimone di un’immane mattanza (secondo fonti ufficiali oltre 800 vittime) da parte di esercito e polizia agli ordini dell’attuale presidente dell’Egitto. Oltre ai morti, il regime mise in carcere centinaia di presunti affiliati alla Fratellanza Musulmana, compreso il giovane fotografo, accusato di essere un terrorista. Le sue macchine fotografiche requisite, rullini e memorie spariti, lui a marcire nel carcere di Tora, tristemente noto per la sua durezza, alla periferia sud della capitale. Da allora il suo processo è stato rinviato oltre cinquanta volte, fino al settembre scorso, quando è arrivata la sentenza: cinque anni, da scontare in regime di semilibertà. Dopo un’appendice di altri sette mesi di carcere, come pegno per i danni provocati dai manifestanti nel 2013, il 4 marzo è arrivata la libertà parziale.

Giulio è morto mentre Shawkan (il re dello show) scontava la pena, ma l’eco mediatica della tragedia di Regeni è arrivata fino alla sua cella: “Certo, ho saputo della sua morte all’epoca, in carcere non si è parlato d’altro per giorni. Un giovane non deve morire così, ammazzato perché stava facendo il suo lavoro. Oltre che criminale è stato un atto stupido, ma vivere in Egitto ormai è diventato un inferno. Mi dispiace davvero per lui e per la sua famiglia, sono loro vicino”. La voce di Shawkan è profonda, ma segnata per sempre, come segnata è la sua vita futura. In fondo lui ha riavuto indietro la libertà, ma solo a mezzo servizio: “Ogni pomeriggio, alle 6 e per i prossimi cinque anni, dovrò rientrare nella stazione di polizia nel quartiere di Giza e lì passare la notte, fino alle 6 del mattino successivo. Questa non è libertà. Non posso trovarmi un lavoro effettivo, non posso uscire dal Paese e il continuo distacco dalla mia famiglia a ferirmi”.

Da giovane spensierato e amante della fotografia e dell’azione a un uomo quasi maturo, cresciuto troppo in fretta dentro una prigione, additato come terrorista e considerato un membro dei Fratelli Musulmani, alla stregua dell’ex presidente, Mohamed Morsi (salito al potere dopo le elezioni del 2012, le prime dopo la rivolta di piazza Tahrir e della Primavera Araba egiziana, una volta finito il lungo regno di Hosni Mubarak), recluso nella stessa prigione: “Io non ho mai fatto politica nella mia vita e non intendo iniziare adesso – precisa Mahmoud Abu Zeid -. Adesso davanti ho solo l’obiettivo di tornare a fare il fotoreporter, ma qui in Egitto è impossibile. Vorrei lasciare il mio Paese, anche se lo amo, per migliorare la mia abilità tecnica, occuparmi delle mie passioni, la fotografia, il giornalismo. Purtroppo sono incatenato qui al Cairo, almeno per altri cinque anni. A proposito di giornalisti, vorrei ringraziare tutti voi per il sostegno arrivato a me e alla mia famiglia durante questi anni”.

Sono le 5 del pomeriggio ed è tempo di prepararsi per rientrare nella prigione a tempo. Sua madre, Zeda, prepara le ultime sue cose per la sera. Presto lui, suo padre, Abdel Shakur, e suo fratello maggiore Mohamed, archeologo, si avvieranno verso la stazione di polizia. L’umore non è dei migliori, non può esserlo, così come non è delle migliori la sua salute: “Quasi sei anni in quel buco non sono facili da superare. Ci sono stati tempi durissimi, ho superato malattie, ho perso peso. Adesso, fuori, seppure in regime di semilibertà, le cose non vanno molto meglio. Fisicamente sono esausto, a livello psicologico è in corso un deterioramento, mi sento giù, la depressione non mi abbandona. Sento addosso una debolezza generale mai provata prima. Mi sto lentamente perdendo, provo a resistere, provo a sopravvivere. Ecco come sto, non credo tornerò ad essere mai più quello di prima, prima dell’arresto”.

Un sesto della sua vita Shawkan l’ha vissuto all’interno di una prigione, difficile non tornare al ricordo di quell’esperienza terribile: “Non riesco a descrivere appieno l’inferno che ho vissuto lì dentro. È un luogo di oscurità umana e sociale, dove si perdono le speranze, i sogni. Il problema è che devi scendere a patti con questa situazione, non ci sono alternative, scappatoie, devi solo sopravvivere. Stare lì dentro, giorno dopo giorno è stato durissimo, un incubo infinito perché non riuscivo a capire il motivo per cui mi avessero chiuso lì dentro, cosa c’entrassi io con la politica. Nei momenti di crisi continuavo a dirmi ‘resisti’ e così ho fatto, così ho resistito fino all’ultimo. Ora però, tutte questi traumi vissuti là dentro me li sto portando dietro nella vita fuori da Tora. Quando sono entrato in carcere, nell’agosto del 2013 stavo bene, ero una persona normale, adesso non è più così, non sono più così forte. Il tempo passa e passerà e io devo tenere duro e andare avanti. Una cosa è certa, il carcere mi ha cambiato, non credo in meglio”.

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