Barbie compie sessant’anni e non ha neanche una ruga. Chi le avrebbe preventivato una vita così lunga e serena in quel lontano 1959? È sopravvissuta agli anni dell’ingenuo consumismo, al decennio della contestazione, alle rivendicazioni delle donne e, via via, fino ai nostri giorni dove una divinità può bruciarsi in un click. L’ha ritratta anche Andy Warhol che aveva già immortalato Marylin Monroe e magari, per i capelli di Barbie, il pittore ha usato lo stesso tubetto impiegato per la diva americana, per quella chioma troppo bionda da bellezza irraggiungibile.

La storia di Barbie ha un prologo a fumetti che inizia il 24 giugno 1952 sulla pagina domenicale del popolare quotidiano tedesco Bild Zeitung. L’incantevole ragazza è bionda, elegante, vezzosa e rispecchia le pin up statunitensi, allora in voga. Il crescente successo del fumetto induce il suo disegnatore Reinhard Beuthin a contattare un progettista per realizzare una bambola. Occorre attendere l’agosto del 1955 per la comparsa della proto Barbie, Lilli. Costa 20 marchi, una cifra elevata per un giocattolo. Non è questo il target della sua prima commercializzazione. Lilli è venduta come divertente soprammobile per signore, per le feste di addio al nubilato e come mascotte portafortuna per gli uomini.

Nel 1956, per le vie di Lucerna, la famiglia statunitense Handler, co-proprietaria della Mattel, vede in una vetrina sei versioni di Lilli in tenuta da sci. La figlia adolescente Barbara ne resta incantata, ma anche la madre Ruth Handler vede realizzata la sua mai ascoltata idea di immettere sul mercato una bambola adulta. Al tempo le bambine giocavano con bambolotti bebè e non con bambole signorine.

Barbie appare alla fiera del giocattolo di New York il 9 marzo 1959, presentata come una teenager fashion model a cui si aggiunge la dicitura “una nuova bambola per la vita reale”. Meno snodata di Lilli, ma manichino che inquieta i moralisti. Barbie è sinuosa, magra ma con un seno prosperoso, i lineamenti sono rafforzati da un trucco marcato e i tacchi sono troppo alti. Il successo è immediato e a questo si accompagna il suo bulimico rinnovarsi d’abito, proiezione di una vita sfarzosa e feticcio della società dei consumi.

La visione aziendale della proliferazione delle Barbie e dei suoi ambienti (è venduta in più di 100 Paesi) sostiene che, in questo modo, ogni bambina può identificarsi nella Barbie che le è più vicina e la bambola conduce le fanciulle verso l’adolescenza. Con il tempo l’azienda è riuscita a differenziare il target di età indirizzando il giocattolo anche alle bambine in età prescolare. Come oggetto d’uso, Barbie incarna il nostro complesso e irrisolto rapporto con il consumo: c’è chi possiede scatole di Barbie, dove una indifferentemente sostituisce l’altra, in una frenetica alternanza di usa e getta (quasi come la bambola con i suoi vestiti); poi c’è chi l’adora, la conserva, la guarda fissando quell’icona di bellezza nel suo mondo perfetto. Se la testa di Barbie dopo sessant’anni non tradisce segni di progresso, quella delle nostre bambine vive la sua piena evoluzione: il gioco è svago, curiosità, scoperta, ma con la crescita il gioco è un recinto sempre più delimitato dal confronto con la realtà.

In fondo con Barbie si può anche scherzare perché la sua assurda perfezione ne suscita facilmente la creazione di modelli opposti: la Barbie sfigata, la Barbie in ritardo, la Barbie disoccupata. La realtà dell’ironia liberatoria rende più piccole le icone.

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