Dopo la richiesta avanzata alcune settimane fa dalla sorella, la procura di Roma ha avviato una nuova indagine in relazione all’omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso il 20 marzo del 1979 nella Capitale. I magistrati di piazzale Clodio hanno affidato delega agli uomini della Digos per svolgere una serie di accertamenti preliminari dopo l’istanza depositata negli uffici della Procura da Rosita Pecorelli il 16 gennaio scorso. Nel provvedimento, redatto dall’avvocato Valter Biscotti, si chiede ai pm di avviare nuovi accertamenti balistici su alcune armi che furono sequestrate a Monza nel 1995 ad un soggetto in passato esponente di Avanguardia Nazionale. Si tratta, tra le altre, di una pistola Beretta 765 e di quattro silenziatori artigianali. Nella richiesta finita all’attenzione dei pm si fa riferimento anche ad una dichiarazione che l’estremista di destra Vincenzo Vinciguerra fece nel 1992 all’allora giudice istruttore Guido Salvini. Vinciguerra sosteneva di aver sentito un dialogo in carcere tra due militanti di estrema destra in cui si affermava che l’uomo poi arrestato tre anni dopo a Monza aveva in custodia la pistola usata per uccidere il giornalista. Al sito di inchiesta Estreme Conseguenze Vinciguerra ha confermato in una video intervista i contenuti di un verbale ritrovato dai giornalisti.

L’omicidio a colpi di pistola – L’omicidio Pecorelli è uno dei misteri italiani irrisolti. Il giornalista venne ucciso con quattro colpi di pistola, tre alla schiena e uno in bocca, appena dopo essere salito sulla sua auto parcheggiata in via Orazio, nel quartiere Prati. Subito dopo avere lasciato la redazione di Op per tornare a casa. Lo ammazzarono sparandogli con una pistola calibro 7.65 munita di silenziatore.

Le indagini archiviate – La prima inchiesta venne archiviata nel 1991 dal pm di Roma, Domenico Sica. Le indagini portano al coinvolgimento di personaggi come Massimo Carminati, Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, ma tutti vengono prosciolti per non avere commesso il fatto il 15 novembre 1991. Un anno e mezzo dopo, il 6 aprile del 1993, il pentito di Cosa nostra Tommaso Buscetta accusa Giulio Andreotti di contiguità alla mafia davanti ai pm della procura di Palermo. Il senatore a vita viene iscritto nel registro degli indagati il 14 aprile.

Il processo di Perugia – In base alle dichiarazioni di Buscetta il pm capitolino Giovanni Salvi indaga anche Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò. Nell’agosto del 1993 i pentiti della Banda della Magliana coinvolgono il magistrato romano Claudio Vitalone. Il 17 dicembre 1993 il fascicolo viene inviato alla procura di Perugia, competente ad indagare sui magistrati romani. Nel 1995 parlano altri due pentiti della Magliana, Fabiola Moretti e Antonio Mancini: finisce indagato il boss Michelangelo La Barbera e i pm umbri chiedono la riapertura dell’inchiesta su Carminati. Il Cecato otterrà il proscioglimento col rito immediato poco dopo. A novembre, invece, vengono rinviati a giudizio gli altri imputati. Quattro anni, 128 udienze e 231 testimoni dopo, la procura chiede la condanna all’ergastolo di Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera. Dopo 102 ore di camera di consiglio, però, la corte d’Assise assolve tutti per “non aver commesso il fatto”.

Le condanne di Appello e un morto senza assassini –  In appello cambia qualcosa. Nel 2002 la procura generale chiede di condannare gli imputati a 24 anni di reclusione. Il 17 novembre i giudici riformano parzialmente la sentenza di primo grado: Andreotti e Badalamenti sono condannati a 24 anni di reclusione come mandanti del delitto. Confermate le assoluzioni per gli altri imputati. Sentenza annullata il 30 ottobre del 2003 dalle Sezioni unite della Cassazione che assolvono definitivamente Andreotti e Badalamenti e confermano il proscioglimento di tutti gli altri imputati. Pecorelli rimane un morto senza assassini. Adesso, alla vigilia del 40° anniversario dal delitto, la riapertura delle indagini.

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