Che Matteo Renzi non sia particolarmente simpatico è un fatto. Ed è innegabile che nell’affrontare il referendum costituzionale egli ha commesso due errori. Il primo è stato quello di non voler “spacchettare” la riforma: cosa che probabilmente gli avrebbe consentito (approvate alcune misure, bocciate altre) di parlare di vittoria, sia pure “mutilata”. Il secondo – drammatico e incomprensibile – è stato quello di legare il proprio destino politico e personale all’esito del voto. Il che ha certamente moltiplicato il numero dei “no” e forse addirittura ha indotto a recarsi ai seggi elettori che altrimenti sarebbero rimasti a casa, seguendo il corso del crescente astensionismo degli italiani in ogni tipo di elezione e/o referendum.

Votare “no” era diventata – grazie a questa alzata di ingegno – l’insperata occasione per rimandare a casa il grande antipatico. E sì che c’era stato anche un precedente “suicidio”: quello di Massimo D’Alema, primo presidente del Consiglio comunista, in occasione delle elezioni regionali dell’aprile 2000 (“se perdiamo mi dimetto”).

La sconfitta del dicembre 2016 e le dimissioni di Renzi hanno segnato l’inizio della crisi del Pd e sono state una delle cause principali della vittoria dei 5stelle e della Lega alle politiche del 2018, con tutti i disastri che ne sono conseguiti (e quelli che ancora potranno venire). Eppure con quelle norme sottoposte a referendum si sarebbe giunti finalmente a quella “grande riforma” dello Stato invocata da anni da leader politici (Craxi in primis), da costituzionalisti e da economisti delle più diverse tendenze.

Sorvolo sulle più importanti, come l’abolizione del Senato, o su quelle minori ma sacrosante, come l’abolizione dell’inutilissimo Cnel. Notando solo che l’assetto previsto per il “Senato delle Regioni”, non del tutto convincente, poteva essere rivisto e migliorato in futuro, ma intanto si sarebbe eliminato il costo di 315 senatori e dei loro seguiti. E soprattutto si sarebbe posto fine a quel “bicameralismo perfetto” che è causa della lentezza del nostro processo legislativo. Mi occupo solo di due temi perché tornano purtroppo di attualità.

1. Il primo riguarda le Regioni, alle quali la riforma di Renzi toglieva molti poteri (e molti privilegi alla casta dei “governatori” e degli oltre 1.100 consiglieri regionali). Una riforma fondamentale anche sotto il profilo del debito pubblico, che nella spesa delle Regioni ha trovato una delle principali cause della sua inarrestabile crescita.

Non avendo potuto toccare i compiti delle Regioni, oggi la Lega (forza trainante del governo, visto lo sbando totale dei 5stelle) “passa all’incasso”, chiedendo statuti speciali per le tre regioni trainanti dell’economia italiana: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Una richiesta antica di queste regioni e non priva di buone motivazioni, alle quali però si dovrebbe rispondere con altre misure, senza rischiare di mettere in forse quella sussidiarietà fra regioni ricche e regioni povere che è una delle principali ragioni d’essere di uno Stato. E magari cominciando con un processo inverso, cioè eliminando quel costosissimo “statuto speciale” attribuito a suo tempo a Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige e oggi ingiustificato e anacronistico.

2. Il secondo – solo apparentemente minore – riguarda le province, che in Italia sono 92, senza contare le 14 città metropolitane che nessuno sa a cosa servano. E con oltre 4mila consiglieri e assessori. Una riduzione dei costi irragionevoli per questa “casta provinciale” si era avuta nel 2014 con la riforma voluta dal ministro Graziano Delrio, a seguito della quale i consiglieri non vengono più eletti, ma scelti fra i sindaci delle città e dei paesi che fanno parte di ciascuna provincia.

Ma ora Lega e 5Stelle premono per riportare le province allo status quo ante: senza vergogna, perché è ormai chiaro a tutti che alle province – dopo la nascita delle Regioni e le nuove leggi che hanno ben definito ruolo e poteri dei sindaci – sono rimasti pochissimi poteri, che potrebbero agevolmente essere suddivisi fra Regioni e Comuni. Solo un ceto politico affamato di “posti” può riproporsi di riportare le province all’antico splendore anziché abolirle definitivamente.

L’abolizione delle province è particolarmente importante, anche perché con la loro scomparsa apparirebbero ancora più inutili diversi organismi che, intanto, esistono in quanto legati appunto alle province. In particolare, potrebbero finalmente sparire le Prefetture: una struttura importata da Napoleone, che poteva avere senso quando le distanze – materiali e immateriali – dalla Capitale erano tali da esigere sedi periferiche del governo centrale; ma che non ne ha più alcuno nell’era dei computer e della Rete, con le loro capacità di comunicazione in tempo reale.

Ricordo, fra l’altro, che quasi tutte le Prefetture italiane hanno sede in sfarzosi palazzi d’epoca: sia nelle grandi città (Palazzo Medici Riccardi a Firenze) sia nelle piccole come Lucca, dove il Prefetto vive in quella che fu la reggia di Maria Luisa di Borbone (e lo stesso vale per molti dei palazzi in cui hanno sede le Province). Personalmente – dato che mio padre è stato il “prefetto partigiano” di Milano nel dopoguerra – posso testimoniare che la sede di quella Prefettura, l’antico Palazzo Diotti, è assolutamente spropositata per quello che ormai è un funzionario dello Stato con pochi poteri: oltre agli splendidi appartamenti privati del Prefetto, ci sono un’immensa sala da ballo, una sala da musica, una da biliardo e una per la scherma, con maschere, sciabole e fioretti.

E lo stesso dicasi – sia pure valutando caso per caso – degli uffici provinciali delle imposte, del lavoro e via dicendo, tutti duplicati degli omonimi uffici regionali. Purtroppo – e mi riferisco al voto del dicembre 2016 – quello che è fatto è fatto. Ma con queste mie considerazioni vorrei indurre quanti hanno votato “no” più per antipatia che per un giudizio negativo sulle riforme in discussione a riflettere, per il futuro, sulle conseguenze disastrose che possono derivare dall’essersi presi “lo sfizio” di affossare un politico “antipatico”. Le occasioni non mancheranno di certo.

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