Il senatore del Pd Luciano D’Alfonso rischia un nuovo processo. Questa volta la Procura di Pescara ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex presidente della Regione Abruzzo per l’inchiesta su PescaraPorto che riguarda la realizzazione di un megacomplesso in una delle zone in maggiore espansione della città adriatica, sul lungomare sud, tra il ponte del mare e il porto turistico. Il procuratore Massimiliano Serpi e il suo aggiunto Anna Rita Mantini hanno firmato la richiesta anche per altre 4 persone: Claudio Ruffini, già segretario dell’ufficio di presidenza di D’Alfonso, l’avvocato Giuliano Milia, padre dei titolari delle quote di una delle società che costituiscono la Pescaraporto srl nonché avvocato e “amico personale di D’Alfonso”, come scrivono i pm, il dirigente del Comune Guido Dezio (storico braccio destro dell’ex governatore) e il dirigente del Genio civile Vittorio Di Biase. I reati contestati sono quelli di abuso d’ufficio e di falso in atto pubblico. Il cuore dell’inchiesta, suffragata da intercettazioni ambientali e interrogatori, verte sull’improvvisa variazione della destinazione d’uso di due dei tre edifici che dovevano essere costruiti dalla PescaraPorto: da uffici e alberghi a residenze.

D’Alfonso attualmente risulta indagato anche un’altra inchiesta una delibera della Regione per la realizzazione di un parco pubblico a Lanciano. L’udienza preliminare, davanti al gup Gianluca Sarandrea, si terrà il 5 marzo. In quel caso il reato contestato dal pm Rosaria Vecchi è di falso ideologico in concorso. Formalmente il senatore democratico è ancora indagato anche per Rigopiano, ma la Procura ha chiesto l’archiviazione.

Nel caso di PescaraPorto i pm sono partiti in particolare dal “comportamento ondivago” del Genio civile, che inizialmente rimarcò la situazione di potenziale pericolo del cantiere edilizio, a rischio idraulico e idrogeologico vista la vicinanza del fiume, e non diede l’ok prima degli opportuni accertamenti del Comune e dell’Autorità di bacino. Ma poi ci ripensò in pochi giorni, e così il documento di autorizzazione all’edificazione fu sottoscritto da un solo dirigente (Di Biase) e non dall’altro funzionario del Genio civile, che decise di non firmarlo. Perché questa spaccatura, e perché questa repentina e radicale giravolta dell’organo statale periferico che vigila sulla conformità delle opere pubbliche, e senza più bisogno delle verifiche del caso? Gli inquirenti sospettano che dietro la marcia indietro ci sia un appunto scritto a mano consegnato dall’avvocato Milia allo stesso Di Biase, e che dietro questa minuta possa esserci a sua volta stato proprio D’Alfonso. Un sistema di presunte pressioni a strati, insomma, finalizzato alla conclusione dell’affare immobiliare. “Da quest’inchiesta mi aspetto un vantaggio. Rischio, anzi, di conseguire una specie di immunità parlamentare – disse nella primavera del 2017 l’allora governatore Luciano D’Alfonso in una conferenza stampa convocata apposta per chiarire, sul nascere, il caso di PescaraPorto, e in cui parlò di contestazioni ‘emotivo-politiche’ – Sono il soggetto passivo dell’accertamento della verità. Ogni volta che si determina un approfondimento viene fuori che i denuncianti si rivelano con dei proiettili bagnati… Prevedo anche la vita biologica di questa inchiesta, non perché io parli con la Madonna”. Due anni dopo ne è stato chiesto, invece, il rinvio a giudizio.

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