Il 53 per cento degli americani ritiene che la responsabilità dello shutdown iniziato il 21 dicembre 2018 sia da attribuire principalmente a Donald Trump e ai repubblicani. Il 29 per cento biasima i democratici; il 13 per cento pensa che le colpe siano da dividere tra tutti gli attori in campo. Il sondaggio ABC News/Washington Post mostra un dato che negli ultimi giorni si è fatto sempre più evidente: il presidente – e il suo partito – stanno perdendo la guerra politica e di immagine sullo shutdown. E mentre gli effetti materiali della chiusura del governo federale si fanno sempre più sentire, sullo sfondo restano le tante questioni relative al Russiagate, che nel giro di qualche settimana rischiano di esplodere e rendere ancora più conflittuale il clima politico.

“Sono alla Casa Bianca, in attesa”, ha twittato domenica il presidente. E in un’intervista a Fox News, ha spiegato che molti democratici “stanno guardando un certo musical in un bel posto”, invece di restare a Washington a negoziare. Il riferimento è alla trentina di deputati e senatori democratici che, capitanati da Nancy Pelosi, hanno fatto rotta verso Puerto Rico per assistere al musical “Hamilton”. È “una cosa ridicola”, ha aggiunto Trump, che sempre a Fox ha spiegato di rimanere fermo nella sua richiesta: 5,7 miliardi di dollari per pagare il Muro al confine con il Messico – senza i quali non intende firmare il rifinanziamento del governo federale. “Ma non so cosa succederà”, ha ammesso il presidente, consapevole che i democratici non intendono fare marcia indietro e dare il via libera a una misura che ritengono “inefficace, dispendiosa, immorale”. Un compromesso possibile è stato indicato, nelle ultime ore, da un alleato di Trump, il senatore repubblicano Lindsey Graham, che ha proposto che il presidente riapra temporaneamente le agenzie del governo federale, per dare poi spazio ai negoziati con i democratici.

I musei e soprattutto i parchi che non hanno chiuso sono invasi dalla spazzatura e, senza personale, sono a rischio per episodi di vandalismo

Il fatto è che molti tra gli stessi repubblicani si stanno rendendo conto che non è possibile sostenere l’attuale posizione molto a lungo. Lo shutdown più lungo della storia americana comincia a impattare pesantemente sulla vita di migliaia di persone. A circa 800mila dipendenti federali non è stato pagato lo stipendio – in migliaia hanno già mancato due buste paga. La cosa riguarda soprattutto le fasce di dipendenti con i salari più bassi, con le prevedibili conseguenze su mutui per la casa, polizze, consumi di beni primari come il cibo, la sanità, la scuola. Nonostante non percepiscano lo stipendio, almeno 400mila dei dipendenti in questione devono comunque presentarsi sul posto di lavoro (soprattutto quelli impiegati negli aeroporti e nelle agenzie di polizia e per la sicurezza).

I musei e soprattutto i parchi che non hanno chiuso (porte serrate, tra gli altri, per tutto il sistema degli Smithsonian) sono invasi dalla spazzatura e, senza personale, sono a rischio per episodi di vandalismo. Bloccati i sussidi per gli agricoltori (un gruppo cui Trump ha fatto appello in campagna elettorale). Sospesi gran parte dei servizi di immigrazione, quelli di meteorologia, oceanografia ed aeronautica. Migliaia di persone che pagano l’affitto grazie a programmi di assistenza federale rischiano lo sfratto. Vicino all’esaurimento dei fondi il “Supplemental Nutrition Assistance Program”, che distribuisce finanziamenti perché i più poveri abbiano accesso ai generi alimentari. Ridotta è la capacità di intervento della Federal Emergency Management Agency, quella che porta i primi soccorsi in caso di disastri naturali. Rallentati i servizi del Dipartimento alla Giustizia, dell’ufficio delle tasse, della SEC, la Consob americana.

Lo shutdown è comunque solo una delle questioni che tengono occupate la Washington politica. Sullo sfondo si ingrossa sempre di più l’inchiesta sul Russiagate

È possibile sostenere a lungo questa situazione, con ulteriori prevedibili peggioramenti nei prossimi giorni? La risposta è ovviamente no. Il danno politico che lo shutdown sta provocando rischia non solo di abbattersi sulla Casa Bianca, ma anche sui repubblicani del Congresso, che in queste ore hanno davanti un altro numero: il 69 per cento degli americani (sondaggio NPR/PBS) non pensa che il Muro al Messico che il presidente vuole costruire sia una priorità. Di qui gli inviti a più miti consigli che alla Casa Bianca arrivano da alcuni degli alleati più stretti. Una soluzione potrebbe essere quella di dichiarare lo stato di emergenza e superare lo scoglio del voto del Congresso. Ma lo stesso Trump appare a questo punto piuttosto dubbioso: la battaglia legale sui poteri del presidente finirebbe per bloccare il finanziamento del Muro. I supporter più accesi di Trump avrebbero forse di che gioire, ma l’amministrazione darebbe ancora una volta un’impressione di caos e incapacità di realizzare quanto promesso.

Lo shutdown è comunque solo una delle questioni che tengono occupate la Washington politica. Sullo sfondo si ingrossa sempre di più l’inchiesta sul Russiagate – e in generale dei rapporti di Trump con i russi. Negli ultimi giorni due pezzi di New York Times e Washington Post hanno scatenato nuove polemiche. Il Times ha svelato che l’FBI aprì un’inchiesta su Trump possibile agente dei russi, dopo che il presidente aveva licenziato il direttore dell’agenzia, James Comey. Il Post ha raccontato che Trump ha nascosto dettagli delle sue conversazioni con Vladimir Putin persino ai collaboratori più stretti. L’ombra di un presidente al servizio del Cremlino è diventata ormai così pesante che la stessa intervistatrice di Fox si è sentita in dovere di fare a Trump la domanda cruciale: “lei è un agente dei russi?”, non ricevendo risposta, quanto piuttosto un’espressione di rabbia indignata: “Questa è la domanda più ingiuriosa che mi sia stata fatta”.

È sicuro che nelle prossime settimane queste domande, anziché dissolversi, finiranno per moltiplicarsi. Lo special counsel Robert Mueller è vicino alla conclusione del suo rapporto – che gli avvocati di Trump hanno già detto di non voler rendere pubblico. Le carte depositate in tribunale, e che chiedono l’incriminazione di Paul Manafort, contengono molti dettagli proprio sui legami tra l’ex capo della campagna di Trump e vari oligarchi russi. Inoltre a febbraio Michael Cohen testimonierà davanti al Congresso e la cosa ha già provocato nuovi tweet di Trump, che accusa il suo ex avvocato di volersi così comprare una riduzione della pena. Infine la Commissione Intelligence della Camera, retta ora dal democratico Adam Schiff, promette di investigare soprattutto su una questione: se e come la Trump Organization si impegnò a riciclare denaro sporco in arrivo dalla Russia. I fronti sono insomma molti. Lo scontro sembra pronto a trasformarsi in una guerra continua e senza esclusione di colpi.

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