“Ma a cosa serve oggi la matematica?”. Da sempre mi sento fare questa domanda. Mi chiedo come mai sia così diffuso il distacco del grande pubblico da una disciplina tanto pervasiva. Penso che la faccenda venga da lontano, quindi oggi prendo l’argomento alla larga, rimandando lo specifico della matematica a un prossimo post. Detto in breve, credo che la nostra società abbia sviluppato una sorta di pudore nel mostrare gli ingranaggi, i dettagli tecnici. Mi avventuro in territorio altrui, sarei molto lieto di ricevere il soccorso di blogger competenti (Chiara Alessi? Alberto Bassi? Diego Fusaro? Gianni Vattimo? Patrizia Mattioli?) e naturalmente dei lettori.

Anni fa si vendeva un telefono che mostrava le sue viscere in trasparenza. Per un po’ fu di moda, ma non ebbe molto seguito: tranne questo caso e pochi altri, i meccanismi degli apparati che abbiamo in casa vengono occultati. Notevole eccezione è quella delle motociclette “naked”, ma infatti credo che in questi splendidi oggetti si annidi una certa ribelle ostentazione, simile a quella di chi mostra addominali ben scolpiti.

Sempre che io veda giusto, quale può essere la ragione di questo pudore? Probabilmente è la necessità di rendere semplice l’utilizzo: se uso un frullatore devo concentrarmi su inserire la spina e premere un tasto, senza dovermi preoccupare del funzionamento di un motore elettrico. Perciò forse viene abbastanza naturale escludere totalmente il motore dalla mia stessa percezione. Quando parlo di meccanismi, intendo tutti i dettagli complicati che rendono facile il funzionamento.

A Ingegneria sono spesso affascinato dal confronto fra complessità nascoste e apparente semplicità. Per esempio penso alle tesi con cui si affrontavano i mille problemi di quella che sarebbe stata la telefonia cellulare; o alle tesi sviluppate presso una celebre fabbrica e scuderia di Formula 1, dedicate a minutissimi miglioramenti essenziali anche se invisibili (ne ricordo una dedicata alle vibrazioni dello sportello del serbatoio). In un certo senso, mi pare che la tecnologia da una parte si spinga sempre di più nell’elaborazione di dettagli, dall’altra cerchi sempre più di nasconderli.

Dal mio punto di vista di docente, temo questo atteggiamento: rende più difficile l’orientamento di chi sceglie un tipo di studio tecnologico. Ma c’è un risvolto più ampio dal punto di vista umano, filosofico: sono convinto che tutto questo ci allontani sempre più da un vero contatto con la realtà che ci circonda. Il Robinson Crusoe di Daniel Defoe poteva ancora ricostruire buona parte del suo mondo secentesco con mezzi di fortuna; noi come potremmo mai ricostruire il nostro? Forse la grandiosa efficienza consentita dalle nostre macchine si deve pagare con un distacco sempre più ampio. Il nostro antenato del Neolitico aveva attrezzi incredibilmente meno potenti dei nostri, ma ne conosceva e apprezzava le caratteristiche in modo approfondito. Noi ci sentiamo onnipotenti pigiando tasti di cui non conosciamo il funzionamento.

Ai miei studenti di Ingegneria del secolo scorso chiedevo se avevano mai smontato la sveglia della nonna: la loro curiosità aveva superato il pudore degli ingranaggi? Si erano chiesti a cosa servissero tutte quelle rotelline e come facessero a produrre il movimento delle lancette? Ora la richiesta avrebbe poco senso: la dissezione rivelerebbe poco più di una scheda elettronica.

Chi ha la mia età ricorda la polemica fra sostenitori e avversari del Macintosh, legata a quella che appariva come una perdita di contatto con l’amata macchina, se si prendevano scorciatoie come mouse, finestre, elaboratori di testi intuitivi. Ci fu in proposito una deliziosa Bustina di Minerva di Umberto Eco, che paragonava i due sistemi rivali a calvinismo e cattolicesimo. Sempre di più, la facilità d’uso ci allontana dalla comprensione profonda, vissuta.

Temo anche che questa tendenza sia legata a certi fenomeni di regresso culturale. Per queste ragioni sono favorevolissimo all’insegnamento del pensiero informatico nelle scuole. Ricordo la meraviglia quando, da adulto, imparai come si debba dire tutto, proprio tutto a un calcolatore per fargli espletare i compiti più elementari. In un certo senso, questa educazione può compensare la superficialità: per analogia possiamo vedere il nostro mondo tecnologico con altri occhi, indovinarne la complessità benché nascosta dentro a eleganti gusci. E la matematica? Eh, in un certo senso è il meccanismo più recondito. Ma questo è il tema del prossimo post.

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