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Mufasa, uno dei pochi leoni bianchi rimasti al mondo potrebbe diventare trofeo di “caccia in scatola”. Ecco come mai

Al momento, la fine più probabile che lo aspetta è di finire come trofeo di caccia appeso alla parete di qualche milionario. La cosa ha dell'incredibile, considerata la rarità dell'esemplare. Mufasa è stato confiscato nel 2015 a una famiglia di Pretoria che lo teneva come animale domestico. Da quel momento, è stato accolto nel Wild for Life Rehabilitation Center di Rustenburg in Sudafrica, e se tutto fosse andato secondo i piani, per lui avrebbero dovuto aprirsi a breve le porte del Sanwild, un santuario sudafricano

di F. Q.

Mufasa. A pensarci viene in mente Il Re Leone. L’enorme e potente esemplare re della savana che nel popolare cartone Disney è il papà di Simba e che, nella realtà, ha “prestato”il suo nome a un leone in carne ed ossa. Un leone speciale, e non poteva essere altrimenti. Solo che, a differenza del grande felino animato, il “nostro” Mufasa è bianco. Di leoni come lui, al mondo, ne sono rimasti solo 300, e solo 13 sono liberi di vivere nel loro ambiente naturale. Per gli altri ci sono gli zoo, i parchi, oppure i santuari, dove godono di una sorta di semilibertà. Proprio questa terza soluzione è quella che, ci si augura, sarà scelta per Mufasa. Perché al momento, la fine più probabile per lui è diventare un trofeo di caccia e essere appeso alla parete di qualche milionario.

La cosa ha dell’incredibile, considerata la rarità dell’esemplare. Mufasa è stato confiscato nel 2015 a una famiglia di Pretoria che lo teneva come animale domestico. Da quel momento, è stato accolto nel Wild for Life Rehabilitation Center di Rustenburg in Sudafrica e se tutto fosse andato secondo i piani, per lui avrebbero dovuto aprirsi a breve le porte del Sanwild. Un santuario sudafricano, appunto. Dove lui e Suraya, il leone con cui ha vissuto in questi ultimi anni e che gli è diventato inseparabile “amico”, avrebbero potuto vivere in semi libertà.

Ecco che però, come in un cartone animato Disney che forse non avrà lieto fine, arriva la svolta negativa. Mufasa è infatti di proprietà del National Conservation, dipartimento del ministero dell’ambiente sudafricano, che ha deciso di metterlo di all’asta per “raccogliere fondi per il dipartimento”. In che modo? Attraverso la “caccia in scatola” (cunned hunting). Il nome rende bene l’idea: in questo tipo di caccia, gli animali, di solito allevati con questo scopo e quindi abituati al contatto con l’uomo, vengono braccati all’interno di una zona recintata. A volte sono addirittura sedati. Per loro, c’è la certezza della morte. Per il cacciatore, la certezza del trofeo. Una pratica, questa del “cunned hunting”, che non è diffusa solo in Sudafrica.

Il New York Times si è di recente occupato di una “zona di caccia dall’esito certo”, così si potrebbe definire, che si trova in una città del Texas del Sud: le specie presenti in questa sorta di riserva “truccata” sono più di sessanta, ammazzarne una costa circa 35mila dollari ma i prezzi variano a seconda dell’animale scelto. Naturalmente, le regole dell’Ox Ranch, così si chiama questo luogo, sono diverse da quelle di posti simili che si trovano in altre parti del mondo. Quello che non cambia è che se per alcuni si tratta di un modo per fare sport e cacciare con la sicurezza di portare a casa la preda, per altri la caccia autorizzata di animali rari o in via di estinzione è una cosa eticamente e legalmente dubbia. Soprattutto se, come nel caso di Mufasa, diventa “caccia in scatola”.

In Sudafrica è scoppiata la protesta ed è stata avviata una petizione per salvare Mufasa che ha già raccolto quasi 350 mila adesioni. Anche il Wild for Life Rehabilitation Center di Rustenburg si sta battendo per evitare la morte del leone bianco. Carel Zietsman, avvocato del centro, ha spiegato che al momento “ci sarebbero solo due mercati per Mufasa: messo all’asta per essere cacciato o massacrato ed esportato come rara testa di leone“.  “Riteniamo che il Dipartimento responsabile della conservazione della natura abbia l’obbligo morale e legale di occuparsi degli animali selvatici – ha aggiunto ancora Zietsman in un’intervista a Pretoria News – Il centro di riabilitazione in cui è tenuto Mufasa ha ricevuto dal tribunale una lettera che vieta il suo trasferimento nel santuario. Cosa a cui noi ci opponiamo perché riteniamo che i due leoni (Mufasa e Suraya) abbiano diritto di vivere il resto delle loro vite naturali proprio in un santuario, vicini e liberi di godersi la natura”.

Resta da sperare che la petizione e l’interesse del Wild for Life Rehabilitation Center di Rustenburg portino Mufasa e Suraya alla libertà. Per il bene di questo leone bianco che somiglia a un gigantesco cartone animato (nella versione Disney, Mufasa è scuro), e perché la “caccia in scatola” poco somiglia a quel preistorico rincorrersi tra uomo e animale che lascia al secondo almeno una possibilità di salvezza. Secondo il National Geographic, in Sudafrica, dove vivono circa 2.000 leoni in natura, la caccia in scatola è diventata un’industria da oltre 100 milioni di dollari, con più di 200 strutture che allevano 6.000 grandi felini destinati a questo facile massacro.

Hemingway, che amava molto la caccia, scriveva nel suo romanzo Verdi colline d’Africa (basato su una reale esperienza dello scrittore): “Non è affatto piacevole avere un termine entro il quale il kudù o lo prendi o forse non lo prendi mai più, e neppure magari riesci a vederlo. Non è la maniera d’andare a caccia questa; è un po’ come la storia di quei giovanotti che mandavano a Parigi e se entro due anni non diventavano pittori o scrittori, dovevano tornarsene a casa ed entrare nell’azienda paterna”. Chissà che avrebbe pensato se oltre, al termine di tempo, avesse dovuto fare i conti con un recinto, e con animali sedati.

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