“Dopo quasi cinque anni qui a Dublino è difficile ricordare perché ho lasciato l’Italia. I motivi sono sempre offuscati dal ricordo del buon cibo, delle passeggiate al mare la sera e dal sole della Sicilia. Ma a pensarci bene la lista era molto lunga”. Simone Caruso ha 33 anni e viene da Messina. Lavora come sviluppatore di software nella capitale irlandese, dopo aver tentato senza successo di fare carriera in Italia. “Qui ho trovato un ambiente più favorevole al team-working e uno spiccato senso di meritocrazia“, dice. “Da noi i concetti di carriera e crescita tecnico-personale sono inesistenti e non c’è interesse per la qualità del prodotto”.

Al terzo anno di studi di informatica a Messina, racconta, era stato selezionato da un’azienda siciliana per un progetto di ricerca: “Non avevo un soldo e la situazione in famiglia era difficile, quindi ho preso l’occasione al volo per uscire di casa“. Nonostante le premesse incoraggianti, però, l’esperienza si rivela una delusione: “L’azienda era mediocre sia dal punto di vista culturale che da quello tecnico. Sento di aver buttato via due anni, in cui ho sospeso gli studi e ho iniziato a capire qual è il livello dell’ingegneria informatica in Italia. Almeno, però, ero diventato indipendente“. Tornare a studiare e a vivere in famiglia, dopo tanto tempo fuori casa, per Simone era una prospettiva insopportabile. Così ha trovato un altro lavoro, stavolta a Roma. “Ho vissuto lì altri due anni e poi, anche in quel caso, ho perso le motivazioni. Il gruppo per cui lavoravo era molto importante, faceva consulenza informatica per grandi multinazionali. A me, però, davano 1.500 euro al mese, mentre il mio lavoro era ‘appaltato’ alle aziende clienti per 500 euro al giorno o più. Dopo un po’ questa situazione ha iniziato a disturbarmi, così ho lasciato perdere”.

L’ultimo tentativo di trovare la propria strada in patria Simone lo ha fatto nella sua Sicilia, insieme a ex compagni di studi nel frattempo diventati ingegneri. “Avevamo deciso di metterci in proprio. Eravamo nel 2010, in piena crisi, pessima idea avviare un’azienda. Ingenuamente, però, pensavamo di potercela fare, avendo un buon numero di clienti e progetti. Nemmeno due mesi e già eravamo costretti a trascinare un cliente davanti al giudice perché non pagava. Ho scoperto che in Sicilia questa è una prassi molto diffusa. Le aziende non pagano sfruttando i tempi biblici della giustizia. Non parliamo poi della qualità, dell’innovazione, dell’attenzione ai dettagli: tutte cose di cui non fregava nulla a nessuno. E così un’altra volta, stressato dalle difficoltà economiche e dalla maleducazione dei clienti, sono stato costretto ad alzare bandiera bianca”.

È solo allora, quasi a 30 anni, che decide di cercare lavoro all’estero: “Ero stanco di essere sfruttato“, ricorda. In sole due settimane arrivano due offerte: una dalla Germania e una, appunto, da Dublino. “Ho scelto di vivere qui perché ho trovato una città piccola, a misura d’uomo, dove avrei potuto vivere senza usare l’auto e senza troppo stress. Sono dipendente di una multinazionale americana. Stipendio e prospettive di carriera sono ottimi. Sviluppo software per la gestione delle risorse umane, programmi utili alle aziende per tenere sotto controllo le fatture, i clienti, le forniture”. Ma l’unico posto in cui continua a sentirsi a casa è la Sicilia: “Quando torno a casa per le vacanze ogni volta trovo la mia famiglia diversa, tanto è il tempo che passa senza vederci. Ho sempre pensato che un giorno vorrei tornare in Italia. Ma non voglio più lavorare alle condizioni che ho vissuto prima di partire”.

Articolo Precedente

Migrantes, nel 2017 partiti 243mila italiani. E aumentano gli expat over 50

next
Articolo Successivo

Italiani “cacciati” all’estero a colpi di precariato e cv senza risposta: “Storie che inchiodano i politici di ieri e di oggi”

next