Dall’obiettivo perseguito dall’Accordo di Parigi di limitare al di sotto dei 2 gradi Celsius il riscaldamento medio globale rispetto al periodo preindustriale, fino alle teorie sulle tasse per le emissioni di Co2. L’economista statunitense William Nordhaus (a destra nella foto), che insegna alla Yale University, insignito insieme al collega della New York University Paul Romer del premio Nobel per l’Economia 2018 proprio per i suoi studi su economia e cambiamento climatico è uno dei massimi esperti al mondo in questo settore. Basti pensare che l’Accordo di Parigi di cui tanto si parla persegue l’obiettivo di limitare al di sotto dei 2 gradi Celsius il riscaldamento medio globale rispetto al periodo preindustriale. Non si tratta di una soglia a caso, ma fu proprio lui a teorizzare questo limite in un articolo pubblicato nel 1977. Secondo Nordhaus uno dei rimedi più efficaci per ridurre l’inquinamento in atmosfera è l’applicazione su scala globale di uno schema di tassazione per le emissioni di anidride carbonica. Una teoria che non va certo nella stessa direzione di quella del presidente degli Stati Uniti.

IL NOBEL, MENTRE GLI USA SONO FUORI L’ACCORDO DI PARIGI – È emblematico che destinatari del premio Nobel siano due scienziati Usa che hanno dedicato la loro vita per approfondire il rapporto tra natura, inquinamento e cambiamento climatico da un lato ed economia e produttività dall’altro, considerando che oggi la più grande economia del mondo è stata trascinata da Donald Trump fuori dall’Accordo di Parigi, i cui obiettivi principali si basano proprio sulle teorie in particolar modo di Nordhaus. Di fatto, l’annuncio del premio è arrivato lo stesso giorno in cui il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) ha pubblicato un rapporto che lancia l’allarme sulle conseguenze che avrebbe un innalzamento ulteriore del riscaldamento globale. E mentre lo studio presentato al summit di Incheon-Songdo sollecita i governi a rispondere al problema con maggiore urgenza, i delegati degli Usa che si trovano in Corea del Sud affermano che le sue previsioni rischiano di compromettere lo sviluppo economico. E si tratta di uno studio che, si ricorda, si basa e cita proprio il lavoro di Nordhaus.

IL LAVORO DI NORDHAUS – Nato in Nuovo Messico 77 anni fa, Nordhaus ha iniziato a lavorare alle teorie ambientali nei primi anni Settanta, cercando di misurare i costi economici del riscaldamento globale. Tutto parte, dunque, dalla volontà e dalla capacità di porsi domande in un’epoca in cui su certi temi erano davvero in pochi a farsele, a parte i ricercatori, già preoccupati per il rapido aumento nel consumo dei combustibili fossili e la conseguente emissione di anidride carbonica in atmosfera. La stessa accademia svedese ha affermato che Nordhaus e Romer “non forniscono risposte conclusive”, ma le loro scoperte “ci hanno portato molto più vicino a rispondere alla domanda su come possiamo ottenere una crescita economica globale sostenuta e sostenibile”. Negli anni Novanta, infatti, Nordhaus è diventato il primo a creare un modello quantitativo che calcolasse l’interazione globale tra economia e clima. Un modello articolato che unisce numerose discipline, tra cui chimica e fisica, molto diffuso e che viene tuttora utilizzato per simulare come varia l’andamento globale al variare del clima e per prevedere gli effetti delle politiche economiche tese a ridurre il consumo di combustibili fossili.

QUELLA SOGLIA DA LUI TEORIZZATA – Se quel limite dei 2° Celsius per l’aumento del riscaldamento globale, oltre il quale ci sarebbe il disastro più totale in termini di danni alla crescita economica e alla qualità ambientale, fu teorizzato dal professore di Yale negli anni Settanta, è anche vero che da allora poco si è fatto. Ed è per questo che di recente il premio Nobel ha definito “improbabile” che le nazioni possano raggiungere l’obiettivo dei due gradi indicato nell’Accordo di Parigi, anche a causa del prezzo del carbonio aumentato nel tempo, a causa della politica poco lungimirante.

LA TASSAZIONE DEL CARBONIO – A riguardo, Nordhaus è anche uno dei principali sostenitori dell’uso della tassazione del carbonio per ridurre le emissioni, un approccio politico ritenuto valido da molti economisti. L’economista di Yale ha suggerito una possibile soluzione ma, allo stesso tempo, si è detto anche consapevole delle difficoltà anche normative che comporterebbe una sua applicazione concreta. In pratica si tratta di un accordo tra un gruppo di Paesi che si impongono un’identica tassa sulle emissioni di Co2, corrispondente al costo sociale ambientale delle emissioni a livello globale (ossia 40 dollari la tonnellata secondo il governo americano). Allo stesso tempo andrebbero istituiti dazi dello stesso valore per i prodotti importati dai Paesi che non partecipano all’accordo, che sopperirebbero alla tassa ambientale che questi ultimi non pagano. Riguardo alla carbon tax il professore suggeriva di iniziare con una tassa da 7 dollari per tonnellata di Co2, per poi farla crescere gradualmente. In questo modo si poteva raggiungere un buon equilibrio tra i costi del riscaldamento globale e quelli delle misure che andavano a combatterlo. Negli anni Novanta Nordhaus calcolava che un taglio del 10% dell’anidride carbonica emessa per produrre energia sarebbe stato raggiungibile con una spesa di 10 dollari per tonnellata di anidride carbonica (6 miliardi di dollari l’anno per curare il settore energetico su scala globale). Ha sempre sostenuto che politiche troppo spinte in senso opposto, invece, avrebbero potuto avere impatti economici molto negativi. Una proposta, quella della tassa comune, che lo stesso Nordhaus ha ritenuto di difficile applicazione, anche alla luce dei trattati Wto (World Trade Organization) ma che molte ricerche definiscono tuttora come uno dei rimedi più efficaci per ridurre l’inquinamento in atmosfera.

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