“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”, chiedeva Michele Apicella (Nanni Moretti) al telefono con l’amico Nicola in “Ecce Bombo”, pellicola del ’78. Quest’anno al Salone di Parigi sono davvero molte le defezioni dei costruttori, tanto che ci si interroga sul futuro stesso della manifestazione negli anni a venire. Un fenomeno da imputare agli alti costi di partecipazione ai Saloni dell’auto e alla volontà dei vari marchi di andare a intercettare un pubblico diverso da quello delle fiere automotive tradizionali. Pur alla luce di queste consapevolezze, viene (goliardicamente) da chiedersi cos’abbiano trovato di meglio da fare le varie Case piuttosto che farsi una gita a Parigi. Ecco una rassegna dei possibili “impegni pregressi” con cui alcune marche potrebbero aver dato il benservito al Répondez, s’il vous plaît della rassegna francese.

Il primo fra i non pervenuti è il gruppo FCA, anche se alla kermesse transalpina è presente un’ambasceria della scorporata Ferrari: il gruppo italoamericano è alle prese col dopo-Marchionne, cioè la riorganizzazione apicale del management e con la risoluzione della questione Magneti Marelli. Polo tecnologico che potrebbe essere scorporato e poi quotato in borsa – operazione simile a quanto avvenuto con Ferrari – o direttamente ceduto a terzi: prevarrà l’opzione in grado di generare più cassa per finanziare il nuovo piano industriale FCA.

Nel frattempo Mike Manley, il numero uno della multinazionale, ha appena deliberato il nuovo assetto manageriale dell’azienda: e, va detto, molti “movimenti” sanno tanto di passo del gambero. Infatti alla guida di Maserati torna Harald Wester, che aveva già condotto il Tridente dal 2008 al 2016. Altro “cavallo di ritorno” è Reid Bigland che, dopo un’esperienza assai poco esaltante al vertice di Alfa Romeo, riprende a dirigere Ram, che aveva guidato tra il 2013 e il 2014. È poi da apprezzare l’arrivo di Pietro Gorlier, ex ad Magneti Marelli, all’apice di FCA Emea (Europa, Medio Oriente e Africa) in sostituzione di Alfredo Altavilla, dimessosi dopo aver perso nel singolar tenzone con Manley per la conduzione globale del gruppo.

Poi c’è Opel, che perde una ghiotta occasione linguistica: la marca, infatti, è alle prese con il corso intensivo di francese dopo essere stata acquisita da PSA. Scherzi a parte, Opel si trova in un momento di transizione che coincide con la definizione del proprio ruolo all’interno del gruppo transalpino. Da sempre il brand gioca nella stessa metà campo di Peugeot e Citroen, nella fascia di mercato “mainstream” più o meno alto per intendersi. Al fine di evitare spiacevoli cannibalizzazioni interne, le marche stanno disegnando tre identità specifiche che si rivolgano ad altrettante clientele. Sicché, anche se le Opel del futuro avranno meccanica francese, la loro connotazione dovrà continuare a essere squisitamente tedesca, specie nel design: in questo senso, la GTX Experimental costituisce un’ottima indicazione dell’orientamento del marchio in termini di stile e tecnologia.

Nissan, invece, si sta ancora leccando le ferite per la Pulsar, auto concepita, disegnata e prodotta in Europa che…. agli europei non è proprio piaciuta: la sua è stata una carriera lampo, lunga appena 4 anni. Il tentativo di marcare stretto la VW Golf, o quantomeno provarci, è miseramente fallito. Fortuna che la Qashqai continua a vendere benissimo e che a presidiare il segmento delle compatte di taglia media ci pensano gli alleati di Renault con la Mégane. Tuttavia, la marca giapponese potrebbe presto avere un’altra gatta da pelare: nel 2020 (che, automobilisticamente parlando, è domani) arriva la nuova Volkswagen I.D., che vuole proporre la tecnologia elettrica con prezzi a partire da 24 mila euro. Pertanto la casa di Yokohama dovrà inventarsi qualcosa per confermare la Leaf come auto elettrica più venduta al mondo.

E proprio la Volkswagen è fra le grandi assenti: dovendo scegliere se risparmiare soldi saltando il Salone di Ginevra o quelli di Parigi, la corazzata tedesca non ha avuto dubbi. Specie perché l’appuntamento di casa, quello di Francoforte del 2019, non è mai stato in discussione: quale occasione migliore per inneggiare al “Deutschland über Alles” fra wurstel (VW ne produce 8 milioni l’anno, destinati alle mense dei dipendenti ed ai supermercati) e weissbier? E poi il business di VW in Europa è già lanciatissimo: le terre da conquistare, invece, sono quelle di Cina e USA. Nella Repubblica popolare la VW ha appena aperto tre nuovi impianti nelle città di Qingdao, Foshan e Tianjin: qui verranno sfornati più di 300 mila suv all’anno, ma anche veicoli elettrici (la Cina è il primo mercato mondiale per volumi e per EV immatricolate).

E poi c’è da riguadagnare la simpatia degli acquirenti americani che, a dire il vero, non è mai stata troppa, specie dopo lo scandalo emissioni: per questo Volkswagen ha appena ufficializzato un’alleanza con Microsoft con l’obiettivo di il “più grande cloud dell’industria automobilistica dedicato ai servizi digitali e alla mobilità”. E il nuovo quartier generale digitale sarà proprio negli Usa, dove da poco è in vendita la nuova suv Atlas, fatta da americani (è costruita a Chattanooga, Tennessee) per americani.

Senza dimenticarsi del Medioriente, dove è appena arrivata la Teramont, sport utility a 7 posti già in vendita in Russia. Infine, come scritto pocanzi, c’è il progetto I.D. per una vettura elettrica che ricalcherà le dimensioni della Golf: i dirigenti della marca hanno caldeggiato un prezzo a partire da circa 24 mila euro, che potrebbe metterebbe la concorrenza alle corde. Sotto la carrozzeria la piattaforma MEB, progettata per meccaniche a zero emissioni con autonomia Wltp da 330 a 550 km (la batteria ha capacità minima di 50 kWh) e elettromotori da 136 a 340 CV. Target commerciale? Circa 150 mila VW elettriche vendute nel 2020 e oltre un milione nel 2025.

 

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