La conferma che lo sport è politica, e il calcio è politico – noi lo sappiamo bene: vedi l’uso disinvolto del Milan da parte di Berlusconi – ci viene da Israele, paese che quest’anno ha appena festeggiato i suoi primi settant’anni di esistenza, sempre però sul filo del rasoio, tra guerre e terrorismo, tra repressioni sanguinose ed Intifade, in un’allerta senza fine. Ebbene, il 4 maggio scorso Israele ha ospitato la Grande Partenza del Giro d’Italia, con una prima breve tappa a cronometro disputata nella parte ovest di Gerusalemme, città divisa e contesa. La corsa non ha avuto intoppi, sebbene sia stata preceduta ed accompagnata da polemiche e proteste. Motivate dal controverso status della Città Santa: Israele la considera sua capitale. Ma altrettanto fanno i palestinesi, che avevano contestato il Giro perché legittimava la politica israeliana dopo la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, e soprattutto, dopo le uccisioni dei palestinesi che protestavano al confine della Striscia di Gaza. Polemiche scatenate dai movimenti filo-palestinesi e sostenute dalla campagna antisraeliana BDS (boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni).

Il film ha avuto un sequel. Martedì 5 giugno, giusto un mese dopo il Giro, era stata programmata Israele-Argentina allo stadio di Gerusalemme, una partita di preparazione alla Coppa del Mondo 2018 che comincerà il 14 giugno in Russia. Apriti cielo! Di nuovo proteste dei palestinesi, volantini e manifesti che mettevano in guardia (“Attenzione. State per entrare in un territorio occupato dove i diritti umani sono sospesi. Gerusalemme è la capitale della Palestina”), appelli a Lionel Messi, il capitano della squadra argentina, perché non scendesse in campo. A Barcellona dei militanti palestinesi avevano manifestato indossando magliette della nazionale argentina imbrattate di sangue. Risultato: match annullato. Vittoria degli “odiatori” di Israele?

Di certo, è stato un bel ceffone a Israele, in un momento in cui il suo premier Netanyahu pareva in pieno rilancio diplomatico, accolto nelle capitali senza subire pressioni dalle varie cancellerie. L’unico pericolo era quello di ritrovarsi al centro di una campagna negativa dell’opinione pubblica. E questo è successo non con il Giro, ma con il calcio. La popolarità globale di Messi, l’importanza e la visibilità del football hanno dato ampio risalto al no di Messi e compagni, nonostante gli sforzi di Netanyahu che ha cercato di far cambiare idea a Buenos Aires, chiamando Mauricio Macri, il presidente argentino. I calciatori hanno preferito di non giocare per non essere associati alla politica israeliana, e alla drammatica repressione delle proteste di Gaza, costata la vita a un centinaio di civili.

Eppure l’Argentina sapeva quali potevano essere i rischi politici accettando Gerusalemme quale sede dell’incontro. L’alibi argentino è che gli accordi erano precedenti all’ultima crisi, in particolare alla cruenta escalation. Ma è una scusa che non regge. Al contrario, l’incontro annullato è stato un segnale molto forte. E ben preciso. Significa cioè che Israele, ed in particolare Gerusalemme, non sono mete qualsiasi. Soprattutto tenuto conto dei colossali interessi economici che gravitano attorno al mondo del calcio, molti dei quali in mano a Paesi arabi, solidali con i palestinesi. Non a caso il prossimo mondiale (2022) si disputerà nel Qatar. I soldi degli sceicchi fanno gola ai club più poveri. La geopolitica del football ha dunque prevalso. Col risultato che la mancata partita di Gerusalemme potrebbe costituire un vero e proprio precedente. In realtà, in passato ci fu il caso dell’Unione Sovietica che rifiutò di andare a giocare in Cile dopo il golpe di Pinochet del 1973. E succede di vedere atleti arabi che rifiutano di stringere la mano a giocatori israeliani (anche l’ex romanista Salah è stato uno di questi).

Quanto alle ripercussioni diplomatiche, saranno dissimulate. Le relazioni fra i due Paesi (l’Argentina fu compiacente rifugio dei criminali nazisti) non sono sempre state idilliache: come dopo il rapimento di Adolf Eichmann, catturato in Argentina nel 1960 da un commando del Mossad; come dopo l’attentato all’ambasciata israeliana di Buenos Aires, nel 1992, un attacco suicida che causò 29 morti e 242 feriti; o come dopo l’altro grande attentato che colpì gli ebrei argentini nel 1994, quando fu fatto saltare l’edificio comunitario dell’Amia provocando la morte di 82 persone. Sino a qualche giorno fa l’Argentina era assai marginale nel quadro della politica internazionale sul conflitto tra Israele e i palestinesi. Il no alla partita è diventato un giudizio. Una presa di posizione. Un calcio di rigore.

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