È in arrivo un nuovo taglio dei rimborsi alle cure da una regione all’altra. La scure si abbatterà solo sulle strutture private accreditate. Per non aggravare lo stato dei conti pubblici, soprattutto delle regioni in piano di rientro, per tamponare l’emorragia di pazienti lungo lo Stivale e, non da ultimo, per scoraggiare politiche aggressive di attrazione di malati ad opera di reparti o medici in persona. Questa è l’intenzione, il punto è come metterla in pratica. La scadenza è la fine di maggio, quando in Conferenza delle Regioni dovrà essere chiuso l’accordo sui saldi della mobilità 2016, che influiranno sulla ripartizione del Fondo sanitario di quest’anno.

“Il diritto alla salute è sacrosanto, le prestazioni ad alta complessità non verranno messe in discussione – ci spiega Antonio Saitta, coordinatore della commissione Salute della Conferenza delle Regioni -, per quelle più semplici invece stiamo studiando un ridimensionamento. Perché non è possibile che un cittadino di Cosenza vada a Milano, in una struttura privata convenzionata con il Sistema sanitario nazionale, per farsi operare al tunnel carpale quando potrebbe fare lo stesso intervento nell’ospedale della sua città. Ecco in casi come questi il rimborso non sarà previsto. Quale sarà il criterio di selezione delle cure dobbiamo ancora deciderlo. Ma di certo – assicura – non toccheremo la sanità pubblica, quella no”. Già due anni fa fu concordata una riduzione del 50 per cento sugli incrementi di spesa del 2014 e 2015 nel settore privato.

Intanto i viaggi per le cure mediche hanno continuato a crescere. Oggi costano 4,6 miliardi di euro (la cifra relativa alla mobilità del 2016 già tiene conto degli sconti) contro i 4,1 del 2015 e i 3,7 di otto anni fa. Chi ha più debiti è la Calabria, con un saldo negativo di oltre 319 milioni di euro. La seconda regione messa peggio è la Campania (302 milioni) e la terza il Lazio (289 milioni). La Lombardia invece è quella che vanta più crediti in assoluto. Deve incassare 808,6 milioni di euro dal resto d’Italia. “L’anno scorso abbiamo varato uno sconto del 30 per cento sugli aumenti di spesa nel privato per andare incontro alle regioni del Sud in piano di rientro – aggiunge Massimo Garavaglia, presidente del comitato di settore Regioni-Sanità —. Non ha senso però, non è giusto che i cittadini lombardi paghino le cure a quelli di altre regioni senza essere rimborsati. L’unica che ci guadagna davvero è Trenitalia”.

Ma cosa succede se anche i medici del Sud preferiscono farsi curare negli ospedali del Nord? L’oncologo Antonio Marfella e il pediatra Gaetano Rivezzi hanno scelto di uscire dalla Campania per curare il tumore. A dare una risposta è Giuseppina Tommasielli, medico ed ex assessore allo sport a Napoli: “È inutile negarlo, da noi il ricovero è scadente, ci sono liste di attesa infinite, ospedali con sale operatorie inagibili, e la burocrazia è lenta e inefficiente. Pur essendoci tanti bravi medici, in un contesto così è difficile lavorare bene. Mi creda, è anche colpa di una certa mentalità che va corretta. Le faccio un esempio, se hai un tumore e hai bisogno di un intervento urgente il posto salta fuori solo se prima passi dal medico privatamente. Se non vuoi morire a volte ti tocca pagarti anche l’operazione chirurgica”.

Intanto il capoluogo lombardo in questi anni si è attrezzato per ospitare i pendolari della salute, anche quelli con poca disponibilità economica. La onlus “A casa lontani da casa” raggruppa una serie di organizzazioni no profit (associazioni e parrocchie) che a prezzi accessibili offrono 1200 posti letto (a Milano e in altre città della Lombardia) e nel 2017 hanno accolto oltre 17mila persone (per 160mila pernottamenti).

Oltre i calcoli, ci sono storie di persone che lottano tra la vita e la morte. Come Rosario Rubino, 58 anni, di Catanzaro, che per ritirare la dose di chemioterapia deve percorrere mille chilometri. Un viaggio in verticale che fa da quattro anni, e da settembre almeno una volta al mese. “Ho una metastasi al fegato – racconta -. Ho iniziato a stare male sette anni fa, subito i medici qui non capivano cosa avessi, a un certo punto si erano convinti che erano calcoli renali ma io mi sentivo sempre peggio, quindi ho richiesto altri esami e alla fine mi hanno trovato un tumore al pancreas e al fegato. Non mi avevano dato speranze, mi dissero che loro non sapevano dove mettere le mani, che non avevano le competenze per operarmi”. Per questo Rosario se n’è andato fino a Bologna, all’ospedale Sant’Orsola. “Quando sono arrivato avevo ormai una metastasi a milza, fegato, pancreas. Mi hanno operato immediatamente. Ho dovuto subire due interventi. L’estate scorsa il cancro è ritornato. Ora sono al settimo mese di chemioterapia”. Una guerra contro il tumore che gli costa oltre mille euro l’anno tra treni, aerei e hotel. “La regione mi rimborsa solo il 30 per cento delle spese. Finora mi hanno dato poco più di 300 euro per il 2015 e aspetto ancora i soldi del 2016”. Rosario faceva il macellaio. Da quando ha il cancro non riesce più a lavorare. “Ricevo una pensione di invalidità di 290 euro al mese e una di accompagnamento da 500 euro”. Sua moglie fa le pulizie. “Arrivare alla fine del mese è difficile – confessa -. Che cos’altro mi deve succedere per avere tutte le spese coperte dalla regione?”. La Calabria è in piano di rientro da otto anni. “È una situazione insostenibile – commenta Franco Pacenza, delegato del presidente della Calabria Oliverio per le politiche sanitarie -. Abbiamo le mani legate, non possiamo assumere personale, non possiamo fare investimenti”. Dieci anni fa la Regione previde quattro nuovi ospedali, quello di Palmi, quello di Sibari, di Vibo Valentia e di Catanzaro. Ma ancora nessuno di questi è stato realizzato. Così le liste di attesa si allungano e i reparti scoppiano.

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