Tempo di adozione dei libri di testo e per la prima volta da quest’anno gli insegnanti oltre a tener in considerazione i tetti di spesa dovranno vigilare sugli stereotipi. Il celebre “posso chiederle di chiamarmi ministra” di Valeria Fedeli non è rimasto uno sfizio dell’inquilina di viale Trastevere ma una “battaglia” culturale entrata a far parte delle linee guida “Educare al rispetto”, che chiedono ai docenti di prestare attenzione nella scelta dei testi e persino alle declinazioni grammaticali delle parole. Un appello che divide gli editori tra coloro che nei libri hanno introdotto il termine “sindaca” nel caso di una donna a capo del Comune e quelli che non ritengono sostanziale questa rivoluzione lessicale.

Tra gli uni e gli altri spuntano i presidi che sanno bene quanto il monito della Fedeli rischi di cadere nel vuoto. Il Miur su questa questione è chiaro. Nelle linee guida citate sopra si dice: “Nella pratica didattica si suggerisce quindi di verificare l’adeguatezza del linguaggio usato nei libri di testo di tutte le discipline non solo per quanto riguarda la presenza di eventuali stereotipi del maschile e del femminile, ma anche per quanto concerne l’uso del genere grammaticale, che costituisce uno strumento fondamentale per la rappresentazione della donna nel linguaggio. Particolare attenzione dovrà essere posta alle indicazioni relative all’uso del genere grammaticale contenute nei testi dedicati all’educazione linguistica”.

Parole che il mondo editoriale ha accolto in maniera differente. Francesca Rizzo, responsabile editoriale di Garzanti Scuola e del gruppo De Agostini Scuola, è molto attenta alla questione ma non ha alcuna intenzione di cambiare la lingua italiana: “Non trasmetto ai ragazzi che la parità c’è con una “a” o una “o” alla fine del lemma. Non dobbiamo negare la nostra storia letteraria: non confondiamo la parità di genere con il femminismo. Un conto è dire il sindaco, un altro la sindachessa. Non va stravolta la lingua in nome della parità di genere. L’italiano è pieno di termini maschili che si riferiscono comunque alle donne o a termini femminili che vengono usati anche per i maschi: basti pensare ad “entusiasta”. L’importante è il messaggio che trasmettiamo: serve una selezione di contenuti, di immagini che commentano le regole grammaticali attente alla parità di genere”.

Per essere chiari il “ministra” tanto caro alla Fedeli non è entrato nei testi che segue Francesca Rizzo: “Noi dobbiamo educare i ragazzi e far capire che il ministro può essere sia un uomo che una donna di là del termine”. Resta l’attenzione per le antologie: “Non possiamo storpiare la storia della letteratura italiana ma possiamo valorizzare le figure femminili che a fatica sono emerse”.

Diverso l’approccio di Elisa Cianciabella dell’ “Editrice La Scuola”: “Nei nostri testi, se sarà contemplato tra il set di vocaboli usati, ci sarà il termine “ministra” al posto di “ministro” o “sindaca” al posto del “sindaco”. È una risposta allo spirito dei tempi: questi termini li stiamo ormai sentendo. La scuola è la cassa di risonanza della società. Se il bambino alla TV ascolta il telegiornale e sente questo termine noi dobbiamo recepirlo nei nostri libri”. La raccomandazione del Miur sta cadendo in una presa di coscienza di chi produce i libri: “Nelle nostre letture – spiega Cianciabella – le mamme non sono più solo casalinghe così come i papà non sono quelli che lavorano e basta ma giocano e fanno da mangiare”.

Nella realtà in queste settimane i docenti non potranno certo mettersi a leggere tutti i libri che i rappresentati delle case editrici fornisco alle scuole. Lo sa bene Mario Rusconi, vice presidente dell’Associazione nazionale presidi: “L’appello della ministra è destinato a cadere nel vuoto. Un insegnante non può leggere tutto il libro di testo per trovare “loro” invece di “esse”. I libri di testo andrebbero sottoposti ai consigli di classe dove ci sono anche i genitori. Questo potrebbe essere un filtro utile ai docenti. L’insegnante con tutte le incombenze che ha non può mettersi a sfogliare 400 pagine per vedere se ci sono termini al maschile anziché al femminile, è un’illusione. È il politicamente corretto che non serve a molto”.

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