Sentir parlare il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco di banche o di istituti di credito – come fatto in occasione del trentennale della facoltà di Economia di Tor Vergata – evoca suggestioni a metà strada tra la proverbiale madre degli scarrafoni che immancabilmente trova belli i suoi figli e l’oste che incensa i meriti dei suoi vini, anche di quelli che sono rimasti a decantare così tanto da diventare “deteriorati”.

Con le doverose eccezione di Stefano Cingolani su Linkiesta e di poche altre voci in rete, nessun commentatore sembra battere ciglio di fronte a una narrazione basata su una vigilanza che tutto sommato ha sempre fatto il suo dovere, su istituti di credito che hanno dovuto affrontare ben due terrificanti recessioni e clienti che solo a causa della congiuntura avversa hanno finito per non onorare i propri debiti (mica perché  qualcuno aveva preso male le misure in sede di erogazione o qualcun altro s’è distratto il giorno che è andato in visita ispettiva).

Tutta colpa del destino cinico e baro e note conclusive con moniti salomonici all’indirizzo della politica che deve portarci stabilità – magari grazie a un governissimo che fa benissimo -, il tutto non senza rimarcare la rigidità sempre eccessiva dei regolatori europei che si comportano come maestre arcigne incapaci di comprendere il carattere estroverso delle banche italiane che, se non fanno proprio tutti i compiti a casa, sono però intelligenti e creative.

Provando ad affrontare la questione senza gli eccessi di diplomazia che caratterizzano la maggioranza dei commentatori nostrani, ci sono almeno tre convitati di pietra al tavolo del governatore:

– l’ingerenza della politica nella condotta degli istituti di credito;
– la collaborazione (che sia attiva o passiva) prestata dagli organismi di vigilanza – non solo Bankitalia ma anche Consob – all’ingerenza di cui sopra;
– il gap organizzativo, industriale e tecnologico del nostro sistema bancario nei confronti non solo degli altri Paesi, ma anche e soprattutto nei confronti dell’orda di concorrenti Fintech in arrivo.

Visto che le domande sconvenienti non sembrano piacere a nessuno (di sicuro non al ministro Carlo Calenda), proviamo a indirizzarne qualcuna al governatore confidando che le risposte prima o poi possano “soffiare insieme al vento” come cantava il poeta.

Ma il Monte dei Paschi è saltato a causa della crisi?

Nella parabola discendente dell’istituto senese, veramente non c’era niente – neanche in termini di moral suasion – che la vigilanza potesse fare di fronte alle folli scelte manageriali dall’acquisizione di Banca Antonveneta – ma per chi ha memoria si può andare indietro fino ai tempi di Banca del Salento, ribattezzata Banca 121 giusto in tempo per rincorrere la prima bolla internet – alle disinvolte operazioni in derivati?

Era mica un suo predecessore quell’Antonio Fazio che a un certo punto si è dovuto dimettere da una carica che un tempo era a vita? Può esserci qualche collegamento tra l’esplosione dei deteriorati negli anni 2008-2015 e una condotta non proprio esemplare degli istituti di credito governati dalla politica negli anni precedenti a fronte del silenzio e dell’assenso della vigilanza? Ma veramente non c’è bisogno di alcuna autocritica nell’istituzione che Visco oggi presiede?

Può essere che quella solidarietà cristiana con cui le banche sane un tempo sposavano quelle in difficoltà – con la benedizione del regolatore quando non sotto esplicito invito – abbia indotto fragilità in un sistema bancario che (se accantoniamo le dissonanze cognitive) tanto solido proprio non era?

In Veneto Banca e Popolare di Vicenza ispettori ci sono mai stati?

Se uno mette in fila nello stesso paragrafo:

Mps, le popolari venete, le quattro not so good banks (e innumerevoli altre situazioni minori);
– il rischio – scongiurato grazie alla purga della cessione di deteriorati e all’aumento di capitale più grandi della storia – che la nostra unica banca sistemica (Unicredit) saltasse per l’eredità negativa di Banca di Roma e Banco di Sicilia;
– il fatto che – prima che gli aiuti di stato finissero sotto la lente d’ingrandimento – il Banco di Napoli è stato salvato creando la Società per la gestione di attività (Sga) per smaltire i deteriorati (mestiere peraltro di recente tornato in auge con la liquidazione delle venete).

Con che faccia si può dire che “le difficoltà non dipendono da un’azione di vigilanza lenta o disattenta, ma dalla peggiore crisi economica nella storia della nostra nazione”?

Ma provando a guardare avanti invece che indietro – visto che questi esempi riguardano gli istituti più grandi e il passato -, con che coraggio possiamo dire che il sistema è solido e il peggio è passato quando nella galassia delle banche di piccole e medie dimensioni (dove gli azionisti, management e clientela si sovrappongono) nessuno ancora ha messo il naso e non circolano ancora dati aggiornati?

Con che coraggio possiamo dirlo quando il modello di business (anche degli istituti più grandi) è ancora fortemente esposto verso filiali fisiche sempre più vuote e fa affidamento su un margine d’interesse sempre meno realistico, non riuscendo a tenere il passo con la capacità di misurazione del rischio che farà la differenza tra sopravvivenza ed estinzione dopo il passaggio dell’ondata Fintech?

Terminate le foglie di fico dietro le quali nascondersi, possiamo guarda in faccia alle sfide rilevanti che tutto il settore dell’intermediazione finanziaria sta affrontando a livello globale – e prendere atto che i nostri istituti si trovano a fronteggiarle con l’handicap di fragilità di bilancio pregresse non ancora indirizzate, una cultura clientelare e una carenza di competenze fondamentali; senza contare il mancato supporto di istituzioni e classe politica, che pure nei periodi di vacche grasse non hanno mancato di prendere la propria parte – oppure prestar fede alla narrazione del governatore quando ci racconta che “tutto va bene, madama la Marchesa”. Basta intendersi in partenza e non lamentarsi poi quando la brusca realtà verrà chiedere il conto.

@massimofamularo

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