Dal momento che la Terza Repubblica nella quale il voto del 4 marzo ci ha portato sembra essere terribilmente simile alla Prima Repubblica, quella che Pietro Scoppola efficacemente chiamò “Repubblica dei partiti”, mi pare utile osservare come i leader di questi nuovi partiti, Luigi Di Maio e Matteo Salvini in particolare, non siano proprio all’altezza del loro compito di tessitori di compromessi utili.

Chi ha almeno una quarantina d’anni ricorderà che alle elezioni anticipate si tornava di frequente e, puntualmente, il giorno dei risultati ogni segretario di partito gioiva per il suo 0,2 % in più, letto come “inarrestabile onda lunga”, e valutando anche un sano -1 % al pari di una “sostanziale tenuta”.

Ora, se Di Maio e Salvini (i vincitori delle ultime elezioni che però non hanno vinto tanto da poter governare da soli) non vogliono infilarsi nel ginepraio di una serie di elezioni con sistema proporzionale, in stile Repubblica di Weimar, bisognerebbe che imparassero a fare politica. Cosa significa fare politica? Significa individuare i compromessi utili e quelli necessari.

Non hai sufficienti seggi per fare un governo nelle due Camere? Non ti resta che stabilire quale sia la forza più contigua ai tuoi valori e programmi. Una volta che lo hai capito – e non dubitiamo che Di Maio, dopo qualche giorno di riflessione possa aver compreso le differenze politiche fra centrodestra e centrosinistra, anche se ha passato tutta la campagna elettorale a raccontar fole del tipo “destra o sinistra sono uguali” – dovrebbe stabilire quale delle due forze può realizzare una parte del programma M5S con minore difficoltà. Una parte, appunto, perché va da sé che un governo di coalizione non realizza mai tutto il programma di una sola forza, ma solo uno spicchio del programma di ciascuna forza.

L’altra conclusione a cui Di Maio e Salvini dovrebbero arrivare è che dinanzi a uno stallo simile c’è solo una cosa chiara come il sole: né Luigi Di Maio, né Matteo Salvini saranno premier di questo eventuale governo di coalizione. Per una serie di motivi ovvi a tutti (tranne a loro, pare), non ultimo quello che nessuno dei due può permettersi di fare da vice all’altro. Occorre dunque che trovino, se hanno deciso di poter collaborare, una figura terza che vada bene a tutti e due, o non vada male a nessuno dei due. Butto lì qualche nome di mezza fantasia: Urbano Cairo, una volta risolti i suoi conflitti d’interessi? Umberto Maroni o Federico Pizzarotti, al di là del suo pesciolino d’aprile? La neopresidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, di Forza Italia, già votata dal M5S?

Insomma una figura terza, di garanzia per M5S e per il centrodestra. I due vincitori a metà.

Che, va da sé, esiste, perché gli elettori lo hanno votato al 37%. Non ha nessun senso politico dire, come ha fatto di recente Di Maio “per me il centrodestra non esiste“. Quelle sono lagne puerili. Così com’è puerile pensare di poter andare dal tuo avversario storico, il Pd, che hai insultato per una decina d’anni, dicendogli contro di tutto. È puerile cercare di organizzare una stiracchiata alleanza, magari coi toni debordanti prosopopea di Danilo Toninelli che dice “Diamo al Pd la possibilità di redimersi”. Di redimersi? E da cosa, dal non avervi querelato quando gridavate ai parlamentari del Pd di essere “con le mani sporche di sangue”?

Ma se per caso Di Maio stabilisse che il M5S è di sinistra e solo con il centrosinistra si può alleare, occorrerebbe andare dal Pd con in mano dei contenuti che possano far gola al proprio elettorato: più soldi nell’ottimo reddito di inclusione (rei) accantonando il reddito di cittadinanza, che sembra una balla irrealizzabile concessa “a tutti dalla nascita”, maggiori investimenti e meritocrazia nella scuola pubblica, Ius soli, riforma elettorale in senso maggioritario o ripescando l’Italicum, nuova legge sulle adozioni, legge sull’omofobia, implementazione della dottrina Minniti sui migranti, con migliore organizzazione dell’accoglimento dei regolari.

Magari si potrebbe pensare a una riforma del bicameralismo con conseguente riduzione del numero dei parlamentari, abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel); di riportare la competenza “lavoro” a livello statale, così come era previsto dalla riforma costituzionale del Pd. Cose così: ciccia, contenuti, di centrosinistra che piacciano a Renzi e al resto del Pd. Certo, il M5S parte dalla penalizzazione di non esser stato mai credibile nella scorsa legislatura: dalle unioni civili allo Ius Soli, il M5S ha sempre detto una cosa e fatto un’altra. Questo, in politica, si paga sempre.

Sennò, non resta che dare il boccino a Sergio Mattarella, il quale potrà decidere lui di dare un mandato esplorativo a una figura a metà fra M5S e centrodestra, oppure fra centrodestra e Pd, che, di nuovo, possa trovare i voti per creare un esecutivo di compromesso. Perché la politica è questo: fare l’accordo più utile possibile quando un accordo pare necessario.

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