A Venezia scoppia la polemica per il rischio contagio da malattie (in particolare la tubercolosi) durante le udienze del Tribunale per i profughi. Tutto nasce da un accordo sottoscritto il 6 marzo dai presidenti del Tribunale di Venezia, Manuela Farini, e del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, Paolo Maria Chersevani. L’accordo prevede che le condizioni di salute del profugo che si presenta per la discussione del ricorso contro il rifiuto dell’asilo debbano essere comunicate al giudice per adottare le cautele a tutela della salute pubblica. Contro questa disposizione, ritenuta “discriminatoria”, sono insorti la corrente di Magistratura democratica, i Giuristi democratici, l’Asg (associazione di avvocati che si occupano di immigrazione) e una trentina di legali veneti specializzati.

Il punto della contesa è l’articolo 7 dell’accordo che recita: “I difensori, ove siano a conoscenza di malattie infettive del ricorrente (ad es. Tbc), sono tenuti a comunicare la circostanza al giudice prima dell’udienza e a richiedere al ricorrente la produzione di certificazione che attesti l’assenza di pericolo di contagio”.

Dopo che un’anticipazione del testo era uscita sui giornali locali, il presidente del Tribunale e quello degli avvocati hanno sottoscritto un comunicato in cui replicano alle contestazioni. Spiegano che il “protocollo Venezia” ha lo scopo dare risposte giudiziarie in tempi brevi ai ricorrenti che sono sempre più numerosi: “Nel 2017 sono stati iscritti 4.101 ricorsi a fronte di un numero di sei magistrati, coassegnati ad altre Sezioni”. Nelle udienze viene data la possibilità di parola ai richiedenti asilo. E’ per questo che le udienze sono molto affollate.

L’obbligo di indicare al giudice le malattie, secondo i due presidenti, “si riferisce, all’evidenza, alle patologie trasmissibili per via aerea, in particolare alla TBC, patologia da cui sono risultati affetti numerosi ricorrenti, trasmessa da un batterio, il Mycobacterium tuberculosis, che rimane sospeso in aria e viene trasportato dalle correnti anche a notevole distanza dal punto di emissione, rimanendo vitale a lungo nell’ambiente”. Mentre i difensori dovrebbero comunicare al giudice l’esistenza della patologia infettiva nel ricorso per ottenere la protezione umanitaria, “è accaduto spesso che la comunicazione sia stata effettuata solo all’udienza, o anche all’esito dell’audizione, senza alcuna certificazione di avvenuto superamento della fase contagiosa e quindi senza consentire al Giudice di adottare le doverose misure per evitare la possibilità di contagio”. Quali misure? “La predisposizione di un’aula di udienza non frequentata da altri utenti della giustizia, o la fissazione di un orario di minore afflusso al Tribunale”.

Secondo questa spiegazione gli avvocati non sono tenuti a investigare sulle condizioni di salute degli assistiti, ma “ove siano a conoscenza” devono mettere il giudice nelle condizioni di adottare “le misure organizzative necessarie a tutela delle esigenze di salute pubblica, considerati anche gli spazi ristretti della sede del Tribunale. Il contagio può avvenire, infatti, anche per contatto occasionale ai danni di persone che hanno condiviso lo stesso spazio chiuso”.

Di fronte all’accusa di limitare la sfera personale dei profughi, i due presidenti replicano: “Nel necessario bilanciamento tra esigenze di salute pubblica e privacy la legge ha accordato la prevalenza alle esigenze di tutela della salute pubblica, come previsto da numerosi fonti normative e convenzioni internazionali in materia di diritti umani”. Conclusione: “Il problema è oggettivo e non frutto di pregiudizi o discriminazioni. In ogni caso i ricorrenti affetti da TBC sono stati sempre sentiti e, in presenza dei necessari presupposti, hanno ottenuto la protezione umanitaria, essendo quindi escluso qualsiasi problema di discriminazione”.

Un’altra critica riguarda il fatto che l’avvocato venga tagliato fuori dall’udienza. I presidenti replicano: “La previsione secondo cui l’audizione è condotta dal Giudice (ovvero senza interventi del difensore, se non all’esito delle dichiarazioni del ricorrente), è conforme a quanto previsto dal codice in ordine all’audizione delle parti e dei testimoni”. Contestata anche la creazione di “apposite liste di Avvocati” che si occupano di questo contenzioso. I presidenti replicano: “La lista vuole garantire che la parte ammessa al patrocinio dello Stato possa agevolmente individuare professionisti esperti nella materia della protezione internazionale e dell’immigrazione”. Il tetto dei compensi ai legali (800 euro in caso di successo, 600 euro se il ricorso è respinto) è motivato da esigenze di risparmio. Spiegano i presidenti: “Nel solo 2017 è stata liquidata ai difensori del settore civile la somma complessiva di 1.079.924,26 euro per la maggior parte imputabili al contenzioso in materia di immigrazione”. Il dato è ovviamente riferito a Venezia.

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