Musica

Gibson, perché la leggendaria manifattura di chitarre (e bassi) rischia la bancarotta?

Legni pregiati, meccaniche di primissima qualità e finiture artigianali sono sempre stati i tratti distintivi del marchio: le orecchie, la testa e le dita di chi ne ha imbracciato i prodotti, negli anni, hanno assolto il compito di consegnare il mito alla storia. Eppure qualcosa è andato storto

di Davide Poliani

Passino l’andamento del mercato e la società che cambia – e i gusti, gli orientamenti e le mode che cambiano con lei – ma un’icona non può tramontare. Eppure potrebbe succedere, e nemmeno tra molto tempo. La notizia è che la Gibson, leggendaria manifattura di chitarre (e bassi) che insieme alla concorrente Fender ha costruito mattone dopo mattone la storia della musica contemporanea – dal blues in poi, tanto per intenderci – potrebbe a breve dichiarare bancarotta. A benefico dei non musicisti e dei non appassionati, qualche cenno storico è doveroso: fondata da Orville Gibson nel 1902 a Kalamazoo, nel Michigan, poi trasferitasi a metà anni Ottanta a Nashville, cuore pulsante dell’industria musicale americana, la Gibson ha concepito, costruito e fornito gli strumenti sui quali leggende come B.B. King, Jimmy Page dei Led Zeppelin, Angus Young degli AC/DC e Slash hanno forgiato il moderno sound rock and roll. I suoi modelli – la Les Paul, la SG e la ES-335, sopra tutti – sono assurti a standard sonori in praticamente tutti i generi musicali, dal blues al rock più estremo, passando per il jazz e il pop. Legni pregiati, meccaniche di primissima qualità e finiture artigianali sono sempre stati i tratti distintivi del marchio: le orecchie, la testa e le dita di chi ne ha imbracciato i prodotti, negli anni, hanno assolto il compito di consegnare il mito alla storia. Eppure qualcosa è andato storto.

I più attenti ricorderanno lo scandalo che investì la Gibson alla fine del decennio scorso: una brutta storia di legni importati illegalmente dall’Africa portò l’azienda a difendersi in tribunale, uscendone non con le ossa rotte ma con un discreto danno d’immagine, oltre che con una multa da 350mila dollari da pagare. Niente, rispetto a quanto sarebbe successo dopo. Scandali, inchieste e processi non c’entrano. All’inizio del decennio in corso l’amministratore delegato della Gibson Henry Juszkiewicz decide di diversificare le attività dell’azienda: nel 2011 la società acquisisce lo Stanton Group, mossa che prelude all’apertura della Gibson Pro Audio, comparto dedicato alla produzione di cuffie, speaker e apparecchiature per Dj. Passa giusto un anno e Juszkiewicz mette le mani (e i capitali) sulla Onkyo Corporation, società specializzata in produzioni di sistemi di home theater. Il ritmo delle (costose) operazioni di diversificazione è impressionante: nel 2013 Gibson diventa azionista di riferimento della società di elettronica giapponese TEAC Corporation, e un anno dopo acquisisce la sezione di elettronica di consumo della Royal Philips.

E’ vero, i tempi cambiano: le vendite delle chitarre negli ultimi anni sono in flessione. La Fender, prima e unica concorrente della Gibson, già nel 2012 era stata costretta a rinunciare alla quotazione in borsa, e la Gibson stessa, nel 2016, aveva visto il proprio fatturato ridursi da 2,1 a 1,7 miliardi di dollari l’anno. Eppure Kevin Cassidy, analista finanziario di Moody’s, a Variety ha spiegato che il problema di Juszkiewicz non sono le chitarre: “Il core business di Gibson è stabile e sostenibile“, ha spiegato senza mezzi termini.

E allora? Le ragioni che hanno portato un marchio leggendario sull’orlo della bancarotta le ha spiegate lo stesso Juszkiewicz, quando la notizia della profonda crisi della Gibson è diventata di dominio pubblico, pochi giorni fa: “Stiamo cedendo asset come azioni, proprietà immobiliari e segmenti d’azienda che non hanno raggiunto i risultati che ci stavamo aspettando per ridurre il debito e generare fondi da destinare ai comparti più fiorenti, in modo da rifinanziare la nostra società”, ha detto l’ad senza scendere nei dettagli. A questo punto, le tecnicalità che potrebbero far precipitare la Gibson nell’abisso – la maturazione di obbligazioni per 375 milioni di dollari e l’imminente scadenza di altri 145 milioni in prestiti concessi dalle banche – diventano dettagli da registrare nelle cronache e nulla più. Le regole auree della diversificazione del business e dell’espansione a tutti i costi evidentemente questa volta ha fallito. Probabilmente perché quando ci si trova alla guida di una leggenda sono altre le regole da rispettare. Juszkiewicz, quasi sicuramente, le ha imparate: c’è solo da augurarsi che non sia troppo tardi.

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