Sei mesi d’aspettativa prima di mettersi in lista, cinque anni senza poter essere nè giudice e né pm in caso di mancata elezione, altrettanti lontano da posizioni apicali quando si torna a vestire la toga. Sono i paletti che il Senato si prepara a mettere per i magistrati che entrano in politica. Una storia tormentata quella del ddl che punta a rendere più stringenti le porte girevoli delle toghe che si candidano. Come ricorda Liana Milella su Repubblica era stato votato l’11 marzo del 2014 in Senato, approvato il 30 marzo del 2017 da Montecitorio, il ddl è tornato a Palazzo Madama dove in commissione giustizia arriverà mercoledì 25 ottobre. Allegati ci sono una serie di emendamenti studiati da maggioranza e opposizione: basta approvarne soltanto uno perché il ddl debba tornare ancora una volta alla Camera. A questo punto della legislatura, quindi sarebbe una legge nata morta: per questo motivo si attendono indicazioni da parte del ministro della giustizia, Andrea Orlando.

Ma come intende il Parlamento cambiare le regole per un magistrato che si impegna in politica? Nel ddl c’è la norma Sinisi-Minzolini, che prevede l’astensione obbligatoria o eventuale ricusazione se chi torna a fare il magistrato si trova a dover indagare o giudicare un ex avversario politico.  Per i cinque deputati e senatori magistrati attualmente in carica – a Palazzo Madama siede Felice Casson di Mdp, che è il relatore del ddl, ma anche l’ex guardasigilli Nitto Palma e Giacomo Calendo – viene meno la possibilità di andare automaticamente alla procura nazionale Antimafia o in Cassazione dopo la fine del mandato. I nuovi paletti varranno anche perle toghe che hanno avuto ruoli tecnici  a stretto contatto con la politica come quelli di capo di gabinetto – è il caso dell’attuale procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, che ha lavorato per il ministro della Giustizia – o per il presidente di una Authority, come per esempio Raffaele Cantone all’Anticorruzione. Tutte le cariche elettive sono poi sullo stesso piano: dal consigliere di circoscrizione, al sindaco, al parlamentare italiano o europeo. Chi lascia uno qualsiasi di questi ruoli vedrà congelata la sua carriera per 5 anni: non potrà essere né pm, né giudice, né capo di un ufficio.

Una riforma che piace a Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm. “Non è in discussione il diritto di ciascuno dei magistrati al pari di ciascuno dei cittadini di candidarsi alle elezioni o di assumere incarichi di governo. Il punto è quali sono le condizioni di accesso, per esempio ci si può candidare in una regione dove si esercita la professione giudiziaria? Oppure bisogna determinare un distacco temporale tra l’esercizio delle funzioni giudiziarie e la candidatura?”, ha detto il numero due di Palazzo dei Marescialli, spiegando che “questo distacco ci deve essere perchè non possiamo accettare l’idea che il cittadino pensi che il magistrato, il pubblico ministero o il giudice che si trova di fronte agisce in vista di una aspirazione”. A Legnini replica Donatella Ferranti, parlamentare Pd e presidente della commissione Giustizia di Montecitorio. “Demonizzare al punto tale per cui si dice se i magistrati entrano in Parlamento devono lasciare la magistratura – dice la deputata- a me sembra una perdita per la democrazia oltre che una violazione della carta costituzionale. Fermo restando che per gli incarichi di governo locale, francamente, io sarei anche per dire che il magistrato che esercita la giurisdizione non è il caso che si candidi a sindaco o assuma ad esempio l’incarico di assessore. Perché quest’ultimo è un incarico fiduciario di governo e non elettivo”.

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