“Buongiorno carissimo, come va? Spero tutto bene. Scrivo questa lettera perché per vari motivi non lo si può vedere. Il motivo principale è che io sottoscritto XXXX vorrei mettermi a disposizione per Voi e per la Vostra famiglia”. Questa è la lettera scritta da un ragazzino di 15 anni e consegnata ad Alessandra Cataldo, figlia ventuduenne del boss Antonio Cataldo, affinché la consegnasse al padre detenuto, conosciuto con il soprannome di “Papuzzella”.

Tra le intercettazioni inserite nelle quasi tremila pagine del fermo contro le cosche della Locride, forse questa è quella che rende di più l’espressione utilizzata in conferenza stampa dal generale Giuseppe Governale, comandante del Ros, per descrivere l’operazione Mandamento Jonico: “È stato colpito il cuore pulsante della ‘ndrangheta”.

Ma è quanto scrivono nel provvedimento di fermo i pm Antonio De Bernardo, Francesco Tedesco e Simona Ferriuolo a fare comprendere il perché la ‘ndrangheta sia un fenomeno così radicato nella Locride. Nell’analizzare la lettera del quindicenne al boss Antonio Cataldo, infatti, i magistrati coordinati dal procuratore Federico Cafiero De Raho scrivono: “Gli adolescenti locali lo considerano un modello a cui ispirarsi per conseguire rispetto e potere, percorrendo la strada dell’illegalità.
 La vicenda è talmente paradossale che permette di comprendere ancor meglio la portata del fenomeno mafioso a Locri. Di norma infatti, i ragazzi di quell’età si rispecchiano in tutt’altra tipologia di personaggi, invece nella Locride è il boss a costituire il modello di riferimento”. “È evidente – si legge sempre nel decreto di fermo – che la cultura mafiosa è talmente radicata in quel tessuto sociale che coinvolge finanche l’istituzione scolastica che, in quanto tale, dovrebbe essere avulsa da tali contaminazioni. E invece, nel caso di specie, è stata proprio la scuola il vettore attraverso cui la richiesta di ‘affiliazione’ all’organizzazione mafiosa da parte di un quindicenne è stata veicolata al capo della cosca Cataldo”.

L’operazione Mandamento Jonico, che ha portato all’arresto di 116 persone (gli indagati sono 291), conferma come le cosche della provincia di Reggio, e in particolare quelle della Locride, siano sempre il centro propulsore delle iniziative dell’intera ‘ndrangheta, “cuore e testa pensante dell’organizzazione, nonché principale punto di riferimento di tutte le articolazioni extraregionali, nazionali ed estere”. Grazie alle intercettazioni telefoniche e ambientali, i carabinieri del Ros sono riusciti a dimostrare come le cosche della Locride avessero praticamente il monopolio degli appalti.

Un business che, nei quattro volumi del decreto di fermo, tracca un quadro sconfortante perché la ‘ndrangheta riesce a infiltrarsi persino nei lavori di costruzione del nuovo Tribunale di Locri e nella realizzazione dell’ostello della gioventù in una villa confiscata agli stessi Cataldo.

Da una parte lo Stato strappa alla ‘ndrangheta ciò che dall’altra le cosche si riprendono: “I fratelli Cataldo – è scritto nel fermo – avevano ricevuto dall’impresa aggiudicatrice dei lavori per la realizzazione dell’Ostello della Gioventù (la Scali Srl) una somma tra gli ottanta e i centomila euro come ‘pizzo’ dovuto ai referenti mafiosi della zona”. Ma le cosche si erano infiltrate anche nei lavori per il polo archeologico di Locri Epizefiri, quelli per il ripristino e la sistemazione della rete idrica a Natile di Careri, della tratta ferroviaria a Condofuri, dell’adeguamento della statale 12, della costruzione del collettore fognario in diversi paesi e finanche della realizzazione del centro di solidarietà Santa Marta della Diocesi Vescovile di Locri – Gerace. La costa Cataldo, inoltre, aveva il controllo di alcuni alloggi popolari a Locri.

“Tu sai, no, ma lui già lo sa compà. Che lui se non ci lascia il lavoro a noi, lui il lavoro non lo fa … Perché gliel’ho detto prima che arrivi là compà… tu devi già sapere che se tu vuoi quel lavoro devi lasciarcelo… o se tu dici ‘no, voglio figurare io’… tu devi fare quello che ti diciamo noi”. È il boss Giuseppe Pelle che detta le regole di come funzionano gli appalti nella Locride. Il concetto è semplice: “Vai, prendi il cemento dove ti diciamo noi, fai quello che devi fare dove ti diciamo noi, vedi tutto quello che devi fare come ti diciamo noi. Altrimenti ce lo lasci e ce lo gestiamo noi”.

E se qualcuno ritarda nei pagamenti? “Lo leghiamo là, – è sempre Pelle che parla – uno va a prendere i soldi e lo aspettiamo là. Pagano la trascuratezza ventimila euro ciascuno … quaranta! Compare Giorgio, tenete… fede di quello che ho detto, se passa aprile lo acchiappiamo nel capannone, uno lo teniamo là e all’altro gli diciamo: ‘Vai a prendere i soldi e paga’. Non appena esce, non appena porta i soldi lo prendo e lo liberiamo, se no non lo liberiamo”.

Non c’è appalto o paesino della Locride dove i clan non abbiamo allungato i loro tentacoli. Direttamente o indirettamente, le famiglie mafiose sono riuscite a condizionare i soggetti che partecipavano i bandi, raggiungendo accordi preventivi, o attraverso ditte intestate a prestanome. È così che in mano ai boss sono finiti fondi regionali e comunitari. Un fiume di milioni di euro grazie a un’infiltrazione nei lavori pubblici che avveniva “a prescindere dalla stazione appaltante” che sia stata l’Anas, la Ferrovia, il Provveditorato, il Consorzio di Bonifica dell’Alto Jonio Reggino, la Provincia di Reggio o la Regione Calabria.

I carabinieri hanno scoperto anche una serie di truffe nel settore dell’agricoltura e della pastorizia. In particolare, è emerso il coinvolgimento di esponenti delle famiglie mafiose “Perre-Barbaro di Platì nell’indebita percezione di contributi comunitari all’agricoltura, relativi al periodo 2009-2013 e in truffe in danno dell’Inps di Reggio, realizzate attraverso la presentazione di falsa documentazione attestante fittizie assunzioni temporanee di braccianti agricoli, al fine di ottenere il pagamento indebito di contributi previdenziali e di disoccupazione”.

Un ampio capitolo dell’inchiesta, infine, è dedicata a quello che i pm definiscono “l’apparato giurisdizionale della ‘ndrangheta” che è “articolato almeno in tre livelli: il Consiglio Locale, un Consiglio direttivo generale (costituito da almeno 5 locali) e la Provincia. Un vero e proprio tribunale delle cosche dove “i giudizi vengono instaurati – è scritto nel decreto di fermo – a seguito di un atto di accusa a carico di un affiliato che ha tenuto 
un comportamento manchevole del ‘codice’ d’onore o anche di una articolazione”.

Gli affiliati che si sono macchiati di “colpe”, “trascuranze” o “sbagli” sono sottoposti ad atti di accusa “mossi dai componenti della Locale di 
appartenenza, di cinque Locali e della Provincia a seconda di quanta parte dell’organizzazione coinvolga il problema da affrontare”. E alla fine del “processo” arriva la sentenza che può “comportare l’applicazione di sanzioni a carico di singoli affiliati (distaccare, fermare, spogliare od uccidere l’interessato) o di articolazioni della ‘ndrangheta (come il caso della chiusura/sospensione di una locale)”.

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