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Pink Floyd, The Early Years 1965-1972: la storia in musica. O forse la Storia e basta

Nessun riempitivo per un cofanetto che si presenta come splendido scrigno dei tesori includendo ben ventotto dischi (cd audio, blu-ray e dvd) custoditi in sette volumi a tema - comprensivi di preziose memorabilia contenute in tasche apposite - cinque repliche dei primi 45 giri pubblicati tra il 1967 e il 1968 ed infine poster ed altre riproduzioni cartacee

di Chiara Felice

Nessuna sciarpa, biglia o sottobicchiere – elementi che avevano trovato spazio nelle edizioni immersion di “Dark Side of the Moon”, “Wish You Were Here” e “The Wall” – è stata inclusa nel monumentale cofanetto “Pink Floyd – The Early Years 1965-1972”, appena pubblicato. Nessun riempitivo per un cofanetto che si presenta come splendido scrigno dei tesori includendo ben ventotto dischi (cd audio, blu-ray e dvd) custoditi in sette volumi a tema – comprensivi di preziose memorabilia contenute in tasche apposite – cinque repliche dei primi 45 giri pubblicati tra il 1967 e il 1968 ed infine poster ed altre riproduzioni cartacee. Un lavoro di ricerca e restauro eccezionale, con molti documenti video e audio (registrazioni dal vivo, demo, brani d’archivio) inediti.

Tutto il materiale è incastonato in un’imponente scatola nera con una striscia bianca a caratterizzarne i quattro lati, grafica che trae ispirazione dal furgoncino Bedford usato dai Tea Set, prima incarnazione dei Pink Floyd. “The Early Years 1967-1972” è una pubblicazione tanto attesa quanto fondamentale per comprendere chi fossero i Pink Floyd prima di diventare la band dal successo planetario, e come si sia sviluppata la costruzione di un’identità.

Ascoltando i brani in ordine cronologico, per esempio, si scopre come gli inizi siano comuni a quelle di moltissime altre band, Beatles su tutti. “Lucy Leave” o “Walk With Me Sidney” attingono a piene mani dal rhythm and blues, “I’m a King Bee” è una cover del bluesman Slim Harpo (così come bluesmen erano Floyd Council e Pink Anderson, che ispirarono il nome della band a Syd Barrett) “Julia Dream” – e qui siamo già nel periodo dove un primo sound peculiare si è sviluppato – sembra uscita da “From Home to Home” dei Fairfield Parlour. La progressione della B-side “Paintbox” rimanda alla Beatlesiana “A Day in a Life” e l’influenza dei Fab Four si ripresenta anche nei singoli “It Would Be so Nice” (nel cofanetto è presente il video promozionale girato al Piper durante “Rome goes pop” del ’68) e “Apple and Oranges”; Beatles che vengono quindi presi a modello al fine di creare singoli di successo.

In una manciata di anni i Pink Floyd passeranno da normale gruppo di rhythm and blues a band di culto dell’underground londinese, diventando una delle punte di diamante dell’UFO club di Boyd e Hopkins. Dal vivo le lunghe improvvisazioni venivano accompagnate da proiezioni e luci psichedeliche. La sperimentazione e la ricerca di elementi innovativi erano gli interessi principali della band e non è un caso che il famoso Azimuth Co-ordinator – sistema che durante i concerti permetteva di far ruotare il suono attraverso i diversi altoparlanti posizionati in sala, creando così un effetto quadrifonico – sia stato costruito quasi appositamente per i Pink Floyd e utilizzato per la prima volta dalla band nel 1967 durante il fondamentale concerto “Games for May” alla Queen Elizabeth Hall.

L’importanza di questo “quinto elemento” la si può intuire anche sfogliando la memorabilia presente nel cofanetto dove i concerti attinenti vengono pubblicizzati “Pink Floyd with their Azimuth Co-ordinator”. Nel 1969 – in piena era post-Barrett – l’Azimuth giocherà nuovamente una parte fondamentale in occasione del famoso concerto alla Royal Festival Hall dove le due suite “The Man” e “The Journey” – frutto di semi-improvvisazioni tratte dagli album “A Saucerful of Secrets”, “The Piper at the Gates of Dawn”, “More”, “Zabriskie Point” e l’album in via di pubblicazione “Ummagumma” – sarebbero state eseguite per la prima volta. Nel cofanetto si possono trovare l’audio del concerto, alcuni estratti video delle prove e una riproduzione del programma, si tratta di una delle perle più belle e interessanti vista anche la fondamentale importanza che il concept “The Man/The Journey” avrà sull’elaborazione di “Dark Side of the Moon”.

I Pink Floyd senza Barrett faticheranno non poco a trovare una nuova identità: “Ummagumma” vede i membri della band lavorare individualmente mentre “Atom Heart Mother” tenta con la sua suite la strada del rock sinfonico (il cofanetto contiene una fantastica versione in studio eseguita senza orchestra). Meddle mostra quanto possa apparire ironico il fatto che la principale pietra angolare della band nasca da una sorta di “collage da mancanza di ispirazione”. Infatti la suite “Echoes” – la cui caratteristica “ping note” è stata creata accidentalmente – altro non è che il frutto di 36 diverse idee musicali ognuna delle quali etichettata come “Nothing” (titolo di lavorazione del brano, successivamente più volte modificato fino a diventare “The Return of the Son of Nothing” ed infine “Echoes”). Il cofanetto presenta anche una delle prime versioni in studio della suite (“Nothing 14”) ed una versione live del 1974 che vede l’aggiunta del sax nella prima parte.

Altrettanto fondamentali sono i brani “Careful With That Axe, Eugene” e “A Saucerful of Secrets” che occupano una parte notevole del box set, così come “Interstellar Overdrive” (con tanto di video dell’esibizione con Frank Zappa nell’ottobre del ’69) e “Set The Control Of The Earth Of The Sun”. Tra le outtakes della colonna sonora “Zabriskie Point” compare un sublime strumentale che verrà ripreso anni dopo diventando “Us and Them”. Ogni singolo tassello del cofanetto – e finalmente vengono incluse anche “Vegetable Man”, “In The Beechwoods” e “Scream Thy Last Scream” – è un piccolo pezzo del complesso puzzle floydiano, il primo fondamentale approdo per scoprire la bellezza di un periodo di “ingenua creatività” dove si è passati dai liquid light shows alle “performance concettuali”, dalle colonne sonore alla straordinaria esperienza di Pompei, da mondi incantati all’esplorazione del lato oscuro della condizione umana, dalle lunghe improvvisazioni alle suite sinfoniche. Tutto questo è il frutto della “somma delle parti”: dal background jazz e minimale tanto cari a Wright, ai sentieri folk battuti soprattutto da Waters, dal “suono pittorico” di Barrett alle inconfondibili linee melodiche essenziali di Gilmour. Ogni singolo passaggio della storia della band apparentemente slegato dai precedenti si scoprirà essere, in realtà, sempre stato collegato ad essi.

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