In alcuni post precedentemente pubblicati, ho fatto il punto sui cambiamenti di alleanze e di prospettive politiche che caratterizzano la situazione in Iraq e in Siria. Oggi ritorniamo su questo argomento per renderci conto dello stato in cui si trova oggi la regione e soprattutto delle strategie geopolitiche che la caratterizzano. Anzitutto dobbiamo prendere atto dell’accusa delle Nazioni unite e dell’Organizzazione per l’interdizione delle Armi Chimiche, rivolta a Bashar al–Assad che nonostante lo smantellamento dell’arsenale chimico, avvenuto dopo la strage perpetrata il 21 agosto 2013 a danno della popolazione siriana, alla periferia di Damasco, l’uso di gas tossici si è ripetuto in almeno due occasioni. Stessa denuncia è stata rivolta all’Isis.

In secondo luogo, dobbiamo porre la nostra attenzione sull’offensiva dei ribelli siriani sostenuta dagli aerei e dai carri armati turchi i quali hanno strappato ai jihadisti la città di Jarabulus ad ovest dell’Eufrate e vicina alla frontiera turca. Una vittoria militare importante nell’azione di smantellamento dell’Isis, ma una azione piena di significati politici che dimostrano la versatilità politica di Erdogan alla ricerca di un posto di grande fra i grandi. L’azione militare non era solo rivolta a controllare quella parte della frontiera turca siriana da cui passavano armi e giovani con la vocazione jihadista, ma a stoppare qualsiasi velleità curda di costituire uno stato autonomo frutto di un possibile smembramento della Siria secondo le appartenenze etniche.

La preoccupazione del governo di Ankara di non ritrovarsi alla sua frontiera uno stato curdo che avrebbe inevitabilmente rapporti stretti con il Partito dei lavoratori del Kurdistan in guerra con i turchi dal 1984, ha spinto Erdogan a riprendere in mano le fila di una diplomazia poco legata ai principi e più flessibile. Anzitutto dopo l’incontro del 9 agosto con Putin a San Pietroburgo, si è notato un cambiamento della politica turca verso Bashar al-Assad. Da nemico e dittatore che massacra il suo popolo è diventato un interlocutore imprescindibile per la regione.

E’ la stessa posizione di Putin che già nel 2013 aveva salvato il regime di Assad quando aveva lavorato all’accordo della messa al bando delle armi chimiche. Ma non basta. Erdogan, che rimane un attore importante della Nato, ha un altro conto da regolare verso l’Unione europea e l’America, perché, a torto o a ragione, ritiene di non aver avuto un vero sostegno in occasione del tentativo di colpo di stato in Turchia.

In conclusione si può dire che chi ha le carte in mano nella regione è Putin, il quale gioca su due tavoli: da una parte si dice favorevole a una soluzione politica e dall’altra continua a bombardare i jihadisti e quanti si oppongono a Bashar, nell’errato convincimento che il regime siriano possa vincere. Inoltre, Mosca appoggia il disegno di Erdogan di creare una zona cuscinetto nella frontiera turco siriana. Questo cambiamento di atteggiamento verso Bashar al-Assad da parte della Turchia non ha a mio avviso un valore assoluto, rimane latente la convinzione che il dittatore siriano non potrà in futuro essere il rappresentante della Siria, e non c’è da meravigliarsi se questa posizione sarà un domani condivisa anche da Putin, una volta assicuratosi che nella regione gli interessi della Russia saranno garantiti.

Ora possiamo chiederci: e l’America? Intanto l’incontro che si è tenuto a Ginevra il 26 agosto tra i ministri degli esteri Lavrov e Kerry non ha dato alcun risultato concreto, neanche nel campo umanitario, così la gente può continuare a morire tranquillamente. La situazione impensierisce anche alcuni stati dell’Unione Europea: cosa fa l’America? Nel 1992 un certo numero di intellettuali redassero un documento per la Casa Bianca in cui si diceva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto prevenire la comparsa di un nuovo rivale sia nell’ex Unione Sovietica che altrove. La dottrina Obama ha, invece, cercato di salvaguardare gli interessi vitali dell’America. Aldilà dell’impegno nella lotta contro l’Isis, l’amministrazione americana ha teso a realizzare il disimpegno in Afghanistan e in Iraq considerando molto rischioso un suo impegno militare sul terreno e questo ha anche permesso a Putin di giocare la carta della Russia come grande potenza nello scacchiere Medio Orientale.

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