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Antimafia, Rosy Bindi e Scarpinato ci fanno riflettere. Ma non è tutto un letamaio

Antimafia, Rosy Bindi e Scarpinato ci fanno riflettere. Ma non è tutto un letamaio
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Questo 19 luglio il ricordo della strage di via d’Amelio non è stato soltanto rito o cerimonia. Anzi! Rosy Bindi e Roberto Scarpinato hanno svolto interventi di notevole rilievo.

Sostiene la Bindi che l’antimafia non è più lotta a “Cosa nostra” ma ricerca di prestigio e denaro. Vero, ma non del tutto. Che nell’antimafia ci siano bandiere stracciate, quelle di chi ne ha fatto un mestiere, un sistema di affari e di relazioni opache; che ci sia anche un’antimafia amorale ed illegale, delle spese pazze e dei rendiconti allegri, è purtroppo sotto gli occhi di tutti. Ed è giusto puntare l’indice contro queste derive. Ma senza mai dimenticare (ciò che certamente non è nelle intenzioni della Bindi) l’antimafia interpretata dai tantissimi cittadini che rischiano quotidianamente, mettendo la propria faccia contro il sistema politico-mafioso. L’antimafia sociale, in particolare, resta per molte sue componenti il nostro fiore all’occhiello. Penso – tra gli altri – a Luigi Ciotti, a “Libera” e ai giovani coraggiosi che presidiano civilmente le aule di giustizia dove si celebrano le udienze contro mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti. Far sfiorire questo fiore evocando i miasmi di un letamaio generalizzato, senza confini, è sbagliato.

Roberto Scarpinato ha parlato di cambiamento del Dna della legalità. Ben detto. Ma a mio modo di vedere, più che di una mutazione genetica inaspettata, si è trattato dell’evoluzione progressiva di un processo in atto da tempo. L’Italia delle regole, di coloro che vorrebbero che la legalità fosse non soltanto proclamazione “pneumatica” (flatus vocis…), ma effettiva prassi, da tempo deve vedersela con altre Italie. Quella dei furbi, di coloro che le regole – a partire dal pagamento dei tributi – fan di tutto per dribblarle lasciando ai “fessi” di crederci; o l’Italia degli affaristi, che le regole le considerano un fastidioso ostacolo al pieno dispiegarsi delle loro attività; o l’Italia degli impuniti, che le regole le violano programmaticamente e poi pretendono che mai nessuno ne chieda loro conto e ragione. Parlare di cambiamento del Dna della legalità equivale a dire che l’Italia delle regole sta soccombendo. Ma attenzione: se soccombe, si innesca una spirale perversa che inesorabilmente porta a strappi profondi che possono fare a brandelli lo stesso senso morale della nostra comunità. E alla fine potremmo ritrovarci tutti sotto un cumulo di macerie, perché senza regole prima o poi si va a sbattere.

Scarpinato ha poi introdotto il concetto di “nuova legalità sostenibile che condiziona il mercato, per cui i diritti li toglie e li depotenzia”. Credo si riferisca al fatto che purtroppo la competizione nel mondo dell’impresa è sempre più dura: e un aiutino per mettere un piede davanti alla concorrenza a qualcuno può essere gradito. Pure a costo di ritrovarsi accanto dei soci poco raccomandabili. Oppure al fatto che non sempre si subisce: spesso fa comodo avere rapporti con la mafia, o zone grigie ad essa contigue, per ottenere benefici altrimenti impossibili; spesso si cerca il favore più che il diritto, più il comparaggio (politico/criminale) che non il rispetto della legge e della propria dignità. Di qui, appunto, un condizionamento del mercato che penalizza gli onesti che non si adattano ad un’economia “sostenibile” ancorché (quantomeno) grigia.

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