Il 12 febbraio 2014, a Palazzo Chigi, Letta riceve Renzi. «Io da te voglio chiarezza, vuoi il mio posto? Bene, è tuo, accomodati, ma prenditelo alla luce del sole» intima il premier, che poi gira i tacchi e va a illustrare in conferenza stampa i punti principali del «patto di coalizione Impegno Italia» da proporre ai partiti di maggioranza per rilanciare l’azione dell’esecutivo. Sa benissimo che il suo governo non ha alcun futuro ma, appunto, vuole mostrarsi vivo davanti al nemico, un modo per intervenire al duello e dire: «Io ci sono, aspetto che anche tu abbia il coraggio di presentarti davanti a tutti». Renzi non si fa pregare e lo accontenta il giorno successivo, ma anche in questo caso non agisce direttamente e si fa schermo del Pd.

Il 13 febbraio la direzione nazionale del Partito democratico approva con 136 sì (16 no e 2 astenuti) una mozione proposta dal segretario in cui si chiedono le dimissioni di Letta e la formazione di un nuovo governo. La stessa direzione approva la nascita di un nuovo esecutivo guidato da Renzi. E così il sindaco di Firenze mette all’angolo anche Napolitano: l’incarico di formare un nuovo esecutivo il capo dello Stato deve darlo a lui. Il fatto che un partito (che fra l’altro si autodefinisce democratico) si comporti come un soviet e sfiduci un capo di governo è ovviamente una notizia. La mattina del 14 febbraio è perciò su tutti i quotidiani del mondo. (…) Senza neanche poter passare per l’aula, il 14 febbraio Enrico Letta riunisce il consiglio dei ministri, poi va da solo dal presidente della Repubblica, alla guida di una Delta grigia, e rassegna dimissioni irrevocabili. Un colloquio di appena un’ora durante il quale il capo dello Stato gli rinnova l’invito ad accettare il dicastero dell’Economia nel futuro governo Renzi e, di fronte al suo fermo diniego, quasi lo prega: per lui sarebbe una garanzia. Letta ringrazia ma spiega che non può proprio accettare.

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