Negli ultimi tempi ci sono stati alcuni ritorni sulla scena attesi da tempo. Niente di incredibile, sia chiaro, ma, tanto per fare un paio di nomi, il ritorno di Richard Ashcroft e dei The Strokes va sicuramente ascritto a momenti carichi di una certa aspettativa, tra gli appassionati di rock’n’roll. In entrambi i casi, e capita quasi sempre così quando il tempo trascorso tra l’ultima prova di studio di qualche artista che è stato molto amato e che ha segnato un’epoca è troppo lungo, la delusione è stata piuttosto cocente. Specie per quel che concerne Ashcroft le aspettative erano alte, quasi altissime, quindi la caduta a terra si è fatta ulteriormente sentire, è una faccenda di fisica elementare. Meglio, in certi casi un addio definitivo, ci si dice in questi casi, maledicendo chi decide di tornare sui propri passi, si tratti di reunion o di semplici ritorni in carriera, per il vile denaro.

Poi, è ovvio, ci sono ‘eccezioni eccezionali’, a volte addirittura leggendarie, come il caso di Smile di Brian Wilson, atteso addirittura dagli anni Sessanta a firma Beach Boys e poi uscito nel nuovo millennio sotto la firma del solo autore californiano. Eccezioni, appunto. Rientra in questo novero, si può per ora dire senza pericolo di smentita, la reunion degli Stone Roses, band seminale di quello che è stato il fenomeno MadChester, apripista della successiva ondata del brit-pop e di molta altra musica a venire. Per dire, senza Ian Brown, John Squire, Mani e Reni (non fate ironia spicciola sui nomi dei ragazzi, sono inglesi, mica italiani) non ci sarebbero stati Oasis, Blur e poi gente come Arctic Monkeys e via discorrendo.

Due album a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, The Stone Roses, del 1989, e Second Coming, del 1994. Poi un lungo stop, per molti uno stop definitivo, perché i ragazzi non è che andassero proprio d’accordo, personalità decisamente troppo ingombranti per poter convivere troppo a lungo. Poi nel 2011 una reunion miracolosa, dopo lunghe manovre di avvicinamento. Nel mentre il solo Ian Brown aveva portato avanti una dignitosa carriera solista, lontana anni luce dalla grandiosità della band, ma pur sempre di ottimo livello. Una volta che Ian Brown ha fatto pace con John Squire, colui che lasciò il gruppo in maniera più clamorosa, dopo il primo abbandono da parte di Reni, la reunion è passata dall’essere una possibilità all’essere un dato di fatto.

Dal 2011, quindi, ecco gli Stone Roses impegnati in alcuni episodi live, fino a poche settimane fa. Prima è uscita la notizia, Noel Gallagher come fonte, che i ragazzi, continuiamo a chiamarli così, fossero in studio insieme, poi è uscito il primo singolo All For One, tipico inno alla Stone Roses, con un po’ tutte le caratteristiche tipiche del quartetto mancuniano, e da pochi giorni è uscito anche un secondo singolo, decisamente più importante: Beautiful Thing. Non che il primo fosse un episodio passeggero, ma è evidente che questa seconda canzone è un po’ più canzone della precedente.

Chiaro, se si pensa a brani come Made of Stone o I Wanna Be Adored, magari, si può anche rimanere un poco delusi, perché qui si trasuda leggerezza, ma gli Stone Roses sono talmente grandi che anche un loro brano dichiaratamente leggero appare consistente come un blocco di marmo. Ian Brown ha una delle più sfacciate e arroganti voci del rock tutto, e lo si legga come parole grondanti amore. Idem per la ritmica più funky che un gruppo rock possa ambire ad avere. Stavolta è la chitarra di Joun Squire a essere un po’ sotto traccia, ma nell’insieme Beautiful Thing lascia davvero ben sperare per questo attesissimo nuovo album. Album che, se dovesse uscire entro l’anno, sarebbe stato atteso ventidue anni, non esattamente un lasso di tempo da prendere sottogamba. Per ora accontentiamoci di queste due canzoni, che sono delizia per le orecchie e per il cuori di noi vecchi rocker. Ian Brown vuole essere adorato, se continua a sfornare queste canzoni non faticherà a vedere le sue volontà appagate.

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