Una pericolosa jihadista per Roma, una rispettabile cittadina per Bucarest e Vienna. E’ la storia assurda di Diana Ramona Medan, la trentaseienne rumena residente a Bolzano colpita da un decreto di espulsione lo scorso agosto.

Il caso getta una luce inquietante su come gli stati europei stiano affrontando l’emergenza terrorismo di matrice islamista: dalla valutazione dei rischi, per alcuni altissimi e per altri nulli, fino allo scambio di informazioni fra le cancellerie che, come dimostra questa vicenda, è inesistente.

Ora la donna ha impugnato il decreto d’espulsione del ministro Angelino Alfano davanti al Tar e punta a tornare a in Italia per ricongiungersi con il marito e le due figlie. Nel frattempo si è trasferita a Innsbruck, a un centinaio di chilometri dal capoluogo altoatesino. Da donna libera perché né la Romania né tantomeno l’Austria hanno ritenuto che la sua presenza sia un pericolo per la sicurezza nazionale.

Ecco la sua storia recente: Diana si converte all’Islam circa dieci anni fa dopo essersi sposata con un cittadino tunisino. Insieme a lui si trasferisce a vivere a Collabo, vicino a Bolzano, dove, grazie ai contributi provinciali all’imprenditoria femminile, apre una ditta di pulizie.

Nascono le bambine e contemporaneamente comincia il suo processo di avvicinamento all’Islam intransigente. E’ molto attiva sui social dove, con lo pseudonimo di Diana Kauther (Al-Kauthar è un fiume del paradiso islamico), pubblica post sempre più radicali.

Nel 2011 sottoscrive una petizione pubblica per bloccare le proposte di legge che vietano niqab e burqa, i veli integrali femminili. Niente di male fin qui, ma tanto basta alle autorità italiane per mettere sotto osservazione l’attività telematica della donna.

E, come è successo in molti altri casi, a portare alla sua espulsione come potenziale terrorista sono proprio la navigazione sui siti del fondamentalismo islamico e la propaganda su Facebook. Come in occasione degli attentati di Charlie Hebdo quando, con parole pesanti come pietre, esprime il suo apprezzamento per la strage minacciando i paesi occidentali: “Unici fascisti e criminali siete voi che andate in altri paesi ad ammazzare la gente con la scusa più schifosa al mondo della democrazia e libertà”.

Pochi mesi fa, il post che, secondo gli investigatori, segna il salto di qualità: “Voglio combattere a fianco ai mujaheddin, sono pronta al martirio”. Le indagini segnalano anche la sua vicinanza a un gruppo di foreign fighters pro Isis britannici.

Secondo il Viminale, gli ingredienti per considerarla un “pericolo per la Repubblica”, come recita il decreto di espulsione, ci sono tutti, così il 20 agosto 2015 al porto di Genova scatta il blitz.
Diana, insieme alla sua famiglia, è appena tornata da un viaggio in Tunisia dai parenti del marito e sulla banchina trova la polizia che la preleva e la mette su un aereo per Bucarest.

Sul caso, che crea anche un mezzo incidente diplomatico fra Italia e Romania, interviene subito Alfano: “E’ stato possibile accertare il suo impegno nella propaganda jihadista e il suo desiderio di combattere al fianco dei mujaheddin”.

Ma in Romania la pensano diversamente e Diana, una volta atterrata, viene subito messa in libertà. Così la donna decide di tornare nella sua città natale, Cluj, dove però, nel giro di poche settimane, la malinconia per la lontananza dalle figlie si fa insostenibile. E’ per questo che decide di trasferirsi a Innsbruck, città tirolese come Bolzano, ma in Austria.

E le autorità di Vienna? Come quelle rumene non trovano niente su di lei, così può rimanere nel Paese e, per di più, ottiene anche un alloggio sociale viste le ristrettezze economiche in cui vive.

Ora la battaglia legale per tornare a vivere sotto il lato italiano delle Dolomiti. Che, finirà come finirà, lascia aperti una serie di interrogativi sulla reale efficacia della strategia delle espulsioni del Viminale e sul livello di coordinamento degli stati europei in prima linea per combattere sui propri territori la minaccia stragista dell’Isis.

Una risposta prova a darla Luca Bauccio, avvocato esperto di terrorismo e diritto internazionale che ha difeso numerosi presunti jihadisti: “Si ricorre a queste misure quando non si hanno elementi utili per formulare un’ipotesi di accusa, ma è necessario rassicurare l’opinione pubblica di fronte a posizioni islamiste estreme twittate o condivise su Facebook. Un modo di procedere che dimostra la solitudine degli Stati nel prevenire il pericolo del jihadismo”.

E poi il mistero più grande: cosa spinge una donna europea di 36 anni a diventare un’attivista, vera o presunta, del Califfo nero?

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