Intesa Sanpaolo e Unicredit iniziano a smobilitare le proprie quote nella Banca d’Italia. L’istituto guidato da Carlo Messina, che di Palazzo Koch è il primo azionista, ha firmato i contratti preliminari per vendere il 5,7% delle azioni della Banca centrale, per un incasso di 430 milioni, a un gruppo di casse previdenziali. Si tratta dell’Enpam (l’ente di previdenza dei medici), Inarcassa (ingegneri e architetti), Cassa Forense, Cassa Ragionieri e Enpaia (addetti all’agricoltura). Più la Banca del Piemonte della famiglia Venesio. E’ la prima delle cessioni previste dal decreto noto come “Imu-Bankitalia” varato dal governo Letta nel gennaio 2014, quello che ha disposto la rivalutazione da 156mila euro a 7,5 miliardi del capitale di via Nazionale.

Seguirà a stretto giro Unicredit che secondo quanto riferito dall’Ansa, avrebbe ceduto il 3,2% della sua quota per un controvalore di 240 milioni di euro. L’operazione deve essere perfezionata con le autorizzazioni da parte della stessa Banca d’Italia. L’istituto è il secondo maggiore azionista di Via Nazionale con circa il 22% valutato a 1,659 miliardi di euro. I compratori della quota di Unicredit non sono ancora noto, per ora è stato fatto solo il nome dell’Enpav, la cassa di previdenza dei veterinari. Quanto a Intesa, ad attirare le casse, compresa l’Enpam reduce dalla truffa messa in campo dalla Sopaf della famiglia Magnoni che le è costata secondo i pm 15 milioni, è stato il ricco dividendo che la Banca d’Italia paga a partire scorso anno. La cedola versata ai soci sul 2014 è stata di 380 milioni, pari a un rendimento superiore al 5 per cento. Non male in tempi di tassi bassissimi, con i Bot a sei e dodici mesi che pagano addirittura interessi negativi. D’altro canto è stata la stessa legge del 2013 a fissare a 450 milioni – equivalenti a un rendimento del 6% sui 7,5 miliardi di capitale – il livello massimo degli utili erogabili a titolo di dividendo.

Stando al decreto scritto da Enrico Letta e dall’ex ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, le banche, le compagnie di assicurazione, l’Inail e l’Inps, che hanno in pancia le azioni di via Nazionale, sono tenute a cedere entro la fine del 2016 le quote eccedenti il 3 per cento. Questa prima operazione dimostra come gli azionisti di maggior peso, cioè la stessa Intesa e Unicredit, siano destinati a realizzare notevoli plusvalenze: basti pensare che il gruppo presieduto da Giovanni Bazoli nel 2013 aveva postato a bilancio l’intera quota in portafoglio (il 42,5%) a 642 milioni di euro e ora ne ricava 430 disfandosi di meno del 6 per cento. E per scendere sotto al tetto fissato dalla legge a questi prezzi potrebbe incassare complessivamente quasi 2,9 miliardi.

Da un lato, dunque, c’è l’incentivo per i compratori (fondi pensione ma anche fondazioni e gruppi assicurativi), dall’altro la “carota” per le banche che vendono. Le quali tuttavia, ha stabilito lo scorso anno il decreto Irpef, si si sono visti tassare la plusvalenza con un’aliquota del 26%, più che doppia rispetto al 12% in vigore in precedenza. Un intervento retroattivo e una tantum arrivato a sorpresa dal governo Renzi fresco di insediamento e che aveva causato le levate di scudi degli istituti. Anche perché il precedente governo, quello di Enrico Letta, subito dopo aver confezionato il “regalo” della rivalutazione, aveva anche battuto cassa portando dal 27,5 al 36% l’aliquota Ires a carico di banche e compagnie di assicurazioni e ritoccato all’insù l’acconto per il 2013 dal 120 al 128,5 per cento.

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