Dopo la discussa rivalutazione delle quote di Bankitalia, la banca centrale ha proposto di quintuplicare i dividendi da distribuire ai soci privati. In questo modo, i rendimenti sarebbero più alti di quelli sui Btp trentennali. Quanto incide la tassa sulle plusvalenze.

di Marcello Esposito* (lavoce.info)

Un regalo alle banche?

La vicenda della rivalutazione delle quote di Banca d’Italia ha infuocato nei mesi scorsi il dibattito economico e politico. (1) Senza riprendere la discussione sulle questioni più “profonde”, attinenti alla natura pubblica di una banca centrale, andiamo al nocciolo della questione: si è trattato o meno di un regalo alle banche? È chiaro che una eventuale risposta positiva implicherebbe un giudizio altrettanto positivo, sostanziale più che in punta di diritto, sulla decisione del nuovo Governo di alzare retroattivamente dal 12 al 26 per cento la tassa sulle plusvalenze contabili derivanti dalla rivalutazione.
Nelle sue Considerazioni finali il Governatore ha dato ampio spazio alle motivazioni che hanno portato alla riforma dell’assetto proprietario della Banca d’Italia. Sorvolando appunto sulle questioni teoriche, la domanda è: quanti dividendi la nuova Bankitalia ha distribuito ai soci privati in virtù delle nuove regole? Ogni euro in più dato alle banche è un euro in meno per il Tesoro (quindi per i contribuenti), il cui dividendo è determinato come residuo.
Ebbene, la nuova Banca d’Italia ha proposto di quintuplicare i dividendi distribuiti agli azionisti privati: 380 milioni di euro contro i 70 milioni circa del 2012 e degli anni precedenti.

dividendi-bankitalia 

Rendimenti e dividendi

Questi dividendi, inoltre, corrispondono a un rendimento leggermente superiore al 5 per cento, che è un valore di assoluto rispetto se si considera che le azioni di Banca d’Italia sono praticamente risk-free (o comunque non sono più rischiose di un Btp) e i Btp a 30 anni rendono a mala pena il 3,7 per cento (asta di metà maggio). Con un rendimento così elevato, è facile immaginare che non ci sarà alcuna difficoltà a trovare investitori desiderosi di rilevare le quote eccedenti il 3 per cento, che le grandi banche private dovranno liquidare nei prossimi tre anni. A quale prezzo verranno rilevate?
Se consideriamo le quote Bankitalia alla stregua di un titolo perpetuo, una sorta di “consol” britannica, il valore è dato dal rapporto tra il dividendo e il tasso d’interesse ricavabile dalla curva dei rendimenti interpolata sul nodo di durata che ci interessa. Per semplicità, possiamo assumere che la curva si appiattisca oltre la scadenza trentennale e che quindi il rendimento sia lo stesso del trentennale. Probabilmente, la Banca d’Italia ha usato un’ipotesi simile perché la proposta del dividendo a 380 milioni di euro implica un dividend yield praticamente identico al tasso medio del Btp trentennale nel 2013 (Supplementi al bollettino statistico).
Il rendimento del Btp trentennale è però sceso rispetto all’anno scorso e siamo ora intorno al 3,7 per cento. Se la Banca d’Italia mantenesse invariato il livello del dividendo, questo porterebbe il valore di mercato del capitale della nostra banca centrale, a politica di dividendi invariata, a 10,326 miliardi di euro (+37,68 per cento rispetto ai 7,5 nominali).
Se, invece, Bankitalia volesse stabilizzare il valore di mercato e mantenerlo pari al valore nominale, dovrebbe comunicarlo al mercato. Questo vorrebbe dire rendere più volatile l’importo dei dividendi pagati, adattandolo di anno in anno al livello dei tassi d’interesse. Quest’anno, ad esempio, prendendo come riferimento l’ultima asta dei trentennali, i dividendi dovrebbero essere ridotti  a 277 milioni di euro, con uno yield di poco superiore al 3,5 per cento delle prime consol britanniche.
Tra l’altro, uno yield del 3,5 per cento sarebbe anche compatibile con una politica di investimento degli attivi prudente – il rendimento medio dei titoli di Stato è del 2,28 per cento (Rendistato di aprile 2014) – e che non attinga ai proventi delle riserve statutarie o delle attività di signoraggio e di politica monetaria, i cui frutti dipendono dalla forza del contribuente italiano più che da quella dei soci azionisti.

(1) Numerosi interventi sul tema sono stati ospitati su lavoce.info. Si veda il dossier specifico, e l’intervento successivo di Angelo Baglioni.

*Insegna International Financial Markets presso l’Università Cattaneo di Castellanza. Dal 1990 al 2000 è stato economista presso l’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana (ora Intesa Sanpaolo), dove è stato responsabile della Financial Markets Research. Successivamente, ha svolto diversi incarichi nelle principali SGR italiane (Sanpaolo AM e Pioneer Investments), in Banca Patrimoni Sella e in UnipolSAI. Ha scritto articoli pubblicati su riviste internazionali. E’ laureato in Università Bocconi (DES) e ha conseguito il MSc/MPhil in Economics presso la London School of Economics.

Articolo Precedente

Confindustria, Squinzi: ‘Fuori chi corrompe’. Ma i condannati sono troppi

next
Articolo Successivo

Rapporto Istat, perché il Sud sta soffocando

next