Stella Pende non è una giornalista qualsiasi, ma uno degli ultimi inviati di razza nel panorama sempre più travagliato del giornalismo italiano. Un panda del Sichuan da preservare, e basta una breve chiacchierata telefonica con lei, per parlare dello speciale di Confessione Reporter dedicato all’immigrazione giovanile che andrà in onda giovedì 16 luglio in seconda serata su Rete4, per apprezzare un approccio al mestiere che, parliamoci chiaro, è sempre più raro. Stella Pende è molto meno pessimista di noi, soprattutto quando racconta dei tantissimi reportage che le arrivano da ogni parte del mondo, realizzati da giovani reporter italiani che stanno riscoprendo le meraviglie (e le difficoltà) di un lavoro che ha affascinato intere generazioni.
Lei, che ha intervistato Gheddafi, che ha raccontato zone di guerra e di disperazione, confessa di ispirarsi più a Ryszard Kapuściński che a Oriana Fallaci, e soprattutto non ha la minima intenzione di fermarsi: “Io sono contenta solo quando sono in aeroporto con un biglietto in mano”. E infatti, per preparare lo speciale di Confessione Reporter in onda giovedì sera, è tornata sul campo, ripercorrendo il cammino dell’immigrazione attraverso Senegal, Gambia, Niger, Libia e Sicilia.

Come è nata l’idea di raccontare l’immigrazione degli adolescenti?
È nata dalla constatazione che non ne parla nessuno. Io sono stata in mezzo a queste storie, ho visto i ragazzi scappare. E allora mi sono detta: Se devo parlare di immigrazione parlerò dei giovani e dei ragazzini dai 14 ai 18 anni.

Da cosa scappano?
Scappano dalla guerra, dal Mali (dove se non frequenti la scuola coranica ti sgozzano), scappano dalla fame, visto che si cibano di radici. Un ragazzo mi raccontava di aver passato una vita sui libri per restituire i sacrifici di suo padre. Arrivato alla licenza liceale il professore pretendeva di essere pagato per promuoverlo. Lui, poverissimo, non ha potuto pagare e ha dovuto ripetere l’anno. La tragedia è l’impossibilità di avere un domani anche se studi di notte e dormi tre ore per lavorare e pagare la scuola. E questo succede in Senegal, dove c’è una crisi giovanile terribile. Nel mio viaggio in Africa ho incontrato tantissime storie simili. E alla fine di tutto, la verità è che se sei giovane da quelle parti non mangi, non hai futuro e se studi devi pagare.

Il mestiere dell’inviato è in via d’estinzione. È destinato a sparire, nell’epoca dell’informazione fast food di internet o si può ancora preservare?
Intanto non esiste quasi più per colpa degli editori, che fanno pressione sui direttori che poi non ti fanno partire perché non ci sono i soldi. Io anni fa partivo con il fotografo, due stringer e l’autista, adesso invece sono la stringer di me stessa. Ma io sono sicura che ci sarà un tempo molto vicino in cui saranno rivalutati i racconti di approfondimento più attenti e più lunghi. Altrimenti non si spiegherebbe il successo di Internazionale, che è vendutissimo e che se fosse distribuito meglio venderebbe ancora di più. Il reportage, che vuol dire riportare la vita degli altri, la verità, le bugie, non può morire. Certo, verrà mediato da internet e sarà uno sposalizio tra una scrittura più approfondita e l’immediatezza della rete. Ma no, non scomparirà. Tantissimi ragazzi mi mandano i loro reportage.

Di donne inviate con la sua esperienza ce ne sono state davvero poche. Quanto ha pesato essere donna nella sua carriera? L’ha mai penalizzata?
Mica tanto poche… A Mediaset ce ne sono alcune importanti, dei veri cavalli di razza come Gabriella Simoni e Anna Migotto. Tutte “figlie” di Emilio Fede, peraltro, quando Fede era ancora un vero giornalista.
Però essere donna non mi ha mai penalizzata, forse io sono stato penalizzata più dal fatto di avere figli e una famiglia molto variegata. Un mese e mezzo fa stavo per partire per la Libia ma la sera prima ho strappato il biglietto perché mio figlio mi ha detto: “Se ti succede qualcosa, sappi che te la sei andata a cercare”. La verità, però, è che io sono contenta solo quando sono in aeroporto con un biglietto in mano.

Nel suo lavoro si è ispirata a qualcuno?
Sono riuscita, rompendogli le scatole, a lavorare con Ryszard Kapuściński, a fargli tante interviste, a seguirlo durante la realizzazione di un lavoro. Il mio modello è lui.

E la Fallaci?
Tanto di cappello, ma non è il mio modello. La grande Fallaci era quella che intervistava Mina o Celentano. Quella che si occupava di costume. Quando ho intervistato Gheddafi, alla fine lui si è rivolto all’interprete e ha detto: “Speriamo che questa non si inventi tutto come ha fatto la Fallaci”.

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