Una situazione paradossale. 7 luglio, molti di noi reduci da una faticosissima tornata di esami di Stato, in una delle più calde giornate dell’anno. Tanti di altre città. Ore 18: piazza Montecitorio è letteralmente intasata da un numero incredibilmente alto di persone, sotto il sole asfissiante. Dentro la Camera – tra altissimi soffitti che hanno assistito a passaggi fondamentali della vita del Paese – alcuni parlamentari, con il conforto dell’aria condizionata, hanno iniziato a disbrigare l’ultima tappa di una questione per loro di ordinaria amministrazione: l’“affare” scuola. Archiviato al Senato con la vergognosa forzatura del voto di fiducia, accettata senza batter ciglio anche da molti di coloro che fino ad allora avevano sostenuto di opporsi al provvedimento, il disegno di legge si appresta a subire un rapido passaggio. Questo epilogo procedurale mette in evidenza l’incuria con cui questo governo sta trattando l’unico tema che abbia costituito finora un ostacolo concreto alla sua arrembante e spregiudicata corsa verso la soppressione di molte delle garanzie democratiche previste dal nostro ordinamento.

Dentro e fuori  il Palazzo; due realtà ormai drammaticamente lontane – quasi opposte, certamente in questo momento storico contrapposte – sostenute da  direzioni implacabilmente contrarie l’una all’altra: centralità o no del dettato costituzionale. Nonostante questa evidenza politico-culturale, il nostro sistema di informazione, pubblica o privata che sia, non sa e non vuole essere congruente;  chi in quella piazza piazza civile e colorata di tutte le bandiere di tutti i sindacati, gremitissima, rappresenta i media rincorre – oltre la barriera protettiva e incurante delle opinioni e delle ragioni dei manifestanti – una dichiarazione purchessia di qualche parlamentare che transita nella zona antistante Montecitorio.

“Così va il mondo”, diceva qualcuno. Ma le pratiche di un’informazione ormai completamente dimentica del mandato che la comunità democratica le affida in una situazione autoritaria e liberticida quale quella che la scuola pubblica ha dovuto – per il momento – subire, tanto più perché recidive e trasversali alle diverse testate, la dicono davvero lunga sulle prospettive a breve, medio e lungo termine di un Paese senza passioni.

Ci hanno negato l’ascolto: ora tentano anche di impedirci di pensare, di discutere e di essere contro. Nel giro di un anno, una successione senza precedenti di manifestazioni imponenti, di scioperi partecipati, di cortei numerosi, di presidi ripetuti e prolungati, di flash mob creativi non hanno mai, nemmeno una volta, messo in atto comportamenti non perfettamente omogenei al diritto di espressione del dissenso, alla partecipazione, alla protesta civile.

E allora stanno provando a gabbarci con l’ennesima messinscena: Giannini “riconverte” la propria pagina Facebook (a colpo di mano quasi avvenuto, la legge è stata approvata alla Camera questa mattina). “Il mio profilo privato – annuncia – diventerà una pagina pubblica su cui riprenderanno il dialogo e il confronto con tutti voi sui provvedimenti che stiamo approvando in materia di Istruzione e sulle innovazioni a cui lavoriamo nel settore della Ricerca e dell’Università”: l’altra faccia, quella più vergognosa, della demagogia. Qualora ne avessero davvero avuto l’intenzione, avrebbero potuto ascoltare le piazze del 24 aprile, del 5 maggio (lo sciopero più imponente della storia della scuola), del 24 giugno, quest’ultima in concomitanza dell’approvazione forzosa in  Senato; la piazza del 7 luglio, perfino. Piazze composte, motivate e consapevoli, che dicevano no, argomentando le proprie ragioni e chiedendo di essere prese in considerazione.

A quanto pare, sotto il Senato ci ha notato il solo Fabrizio Rondolino, che ha twittato: “Ma perché la polizia non riempie di botte ‘sti insegnanti e libera il centro storico di Roma?”. Si è poi scagionato parlando di “provocazione”: come provocazioni sono state gli appellativi di “squadristi” alla volta dei docenti da parte di Giannini e Zanda; le innumerevoli patetiche esternazioni di un altro celebre cultore della democrazia e del pacato confronto con gli avversari politici, Davide Faraone. O l’ignobile esternazione di un altro “figlio celebre”, Marco Campione.

Coloro che hanno consigliato a Renzi di compiere questa furibonda e irrazionale volata finale non hanno però tenuto conto di una cosa: la scuola non fa nessun passo indietro. Riprendiamo le forze che ci hanno sequestrato; a settembre saremo di nuovo nelle piazze, virtuali e non, a concretizzare la nostra protesta con un no circostanziato dallo studio e dall’alternativa. Ma le basi si gettano sin d’ora: il 12 luglio, a Roma, avrà luogo un’assemblea organizzata dai comitati per il Sostegno alla Lipscuola e da altri soggetti del movimento, per pianificare un che fare condiviso.

Il nostro OXI non ha avuto possibilità di essere ascoltato: l’autoritarismo del governo e la sudditanza dei parlamentari non prevedono questa possibilità e il rispetto del dissenso. Il danno e le conseguenze che questo atteggiamento sta producendo e continuerà a produrre costituiscono una delle grandi responsabilità morali e politiche di cui prima o poi Renzi e i suoi valletti dovranno rendere conto. E noi andiamo avanti.

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