La Musica è Lavoro

Matteo Zanobini: “La musica non è solo intrattenimento. Gusto, ricerca e contenuti culturali vanno sostenuti”

Nell'attuale mercato, l’unica possibilità di sopravvivenza per l’industria discografica è puntare su progetti di massa che diano risultati veloci, sacrificando quelle proposte che invece hanno bisogno di tempi di assimilazione più lunghi. Ma esiste anche una discografia attenta allo sviluppo di idee che, non potendo contare su vendite consistenti, avrebbe bisogno di un sostegno delle istituzioni.

di F. Q.

Label manager di Picicca, una delle realtà più solide della discografia indipendente italiana, Matteo Zanobini ha il physique du role del produttore indie: baffi d’ordinanza, hipster da quando gli hipster erano faccenda esclusiva di Williamsburg, è uno degli artefici del successo del fenomeno Brunori (altro socio di Picicca, peraltro).
Indipendente sì, ma non troppo: Picicca collabora proficuamente con le major dell’industria discografica, a riprova del fatto che gusto e ricerca musicale non devono per forza corrispondere a una segregazione snob tra qualità e mercato. E l’approccio di Zanobini ai problemi di un settore in crisi è pragmatico, mai velleitario, consapevole delle difficoltà e altrettanto risoluto nel proporre soluzioni.

Secondo te perché in Italia non riesce a passare il messaggio della musica come settore economico, che muove capitali e crea occupazione? È un problema culturale, politico, economico?
Culturale, economico e politico. La tecnologia ha reso la musica un bene immateriale, fruibile in modo gratuito. Del resto se avessimo la possibilità di avere gratis un paio di jeans, un’autovettura o un telefono, nessuno si sognerebbe mai di doverli pagare.
In un mercato così ristretto, l’unica possibilità di sopravvivenza per l’industria discografica è puntare su progetti di massa che diano risultati veloci, sacrificando quelle proposte che invece hanno bisogno di tempi di assimilazione più lunghi. In questo scenario, purtroppo, non è più necessaria una competenza musicale da parte degli addetti ai lavori. Questa attitudine rafforza l’idea che la musica sia solo intrattenimento e fa sì che l’industria discografica sia percepita alla stregua di altri ambiti merceologici di seconda e terza necessità. Ma esiste anche una discografia (come quella che noi pensiamo di rappresentare) attenta al gusto, alla ricerca, allo sviluppo di idee e contenuti culturali che, non potendo contare su vendite consistenti – per i motivi di cui sopra – avrebbe bisogno di un sostegno delle istituzioni. E per sostegno non mi riferisco all’erogazione di finanziamenti in ottica assistenzialistica, ma ad esempio ad agevolazioni fiscali più strutturate, soprattutto in fase di start up.

E’ ancora possibile costruire un successo discografico duraturo in Italia?
Lucio Dalla ha impiegato 10 anni per ottenere un successo di pubblico, straordinario anche in termini economici. Perché una cosa del genere possa accadere oggi, non possiamo sottometterci alla sola mera logica capitalistica. Intendo dire che il mercato per queste proposte è possibile, ma bisogna avere le risorse e il tempo per arrivarci. Tra l’altro l’esistenza di un tale tipo di mercato potrebbe riverberare i propri effetti positivi anche in altri ambiti economici. Il modello Puglia in questo senso è illuminante: la valorizzazione politica della cultura e degli eventi collegati ad essa ha contribuito allo sviluppo di altre attività parallele sul territorio (infrastrutture, turismo, trasporti).

Come è cominciata l’avventura di Picicca e come è cresciuta nel corso del tempo? Qual è la divisione dei ruoli tra voi soci?
Picicca è nata nel 2010, in occasione della pubblicazione del secondo album di Brunori Sas, come naturale evoluzione della collaborazione tra me, Dario Brunori e Simona Marrazzo. Volevamo occuparci di tutti gli aspetti legati al ciclo vitale di un progetto artistico. Fin da subito è stata chiara la nostra attitudine nel voler coniugare la passione con l’aspetto pragmatico. Volevamo fosse anche un mestiere e non un’attività residuale. Fra noi “soci” i ruoli sono ripartiti così: io mi occupo della parte manageriale, Simona della parte amministrativa e Dario è il “consigliori”, esperto in fogli di Excel. Adesso tra collaboratori interni ed esterni siamo una decina.

Il vostro rapporto con le major è molto buono e proficuo. Come è nato? Con quali rapporti di forze? Quanto si riesce a incidere sulle scelte dei colossi della discografia?
Il rapporto con le strutture esterne con cui collaboriamo (non solo con le major) è sempre stato ottimale, perché caratterizzato da una nostra totale indipendenza artistica. Noi realizziamo le nostre opere in autonomia e poi le sottoponiamo alla loro attenzione. Se c’è interesse e margine, collaboriamo. Ad oggi siamo legati alle major per il comparto distributivo ed editoriale. Intervengono soprattutto laddove non riusciamo ad intervenire con le nostre forze. A una major non interessa intervenire artisticamente su un progetto definito come il nostro. Non c’è insomma nessun tipo di ingerenza da parte di questi partner, ma una proficua collaborazione.

Qual è l’importanza dei live?
Il live è vitale. Buona parte delle risorse arrivano da questa attività.

Come si costruisce il “successo” di un artista senza passare dai talent?
Un certo tipo di successo, inteso come generalista, passa quasi solo per quei canali. Esistono “successi” di natura diversa che garantiscono ugualmente una sostenibilità. Per lavorare in questo senso occorre tempo, cura e dedizione, oltre alla conoscenza puntuale del tempo in cui si vive e delle sue regole. I progetti artistici devono avere un messaggio preciso, un contenuto, un racconto. Ma soprattutto bisogna saperli incarnare e comunicare bene. Pensare solo in termini musicali adesso è più che mai riduttivo. Detto questo, il successo mantiene sempre e comunque variabili aleatorie.

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