Borse deboli e tensione sui titoli di Stato nel giorno di riapertura dei mercati dopo che la Grecia ha avvertito che il 5 giugno non potrà ripagare la rata da 300 milioni di euro dovuta al Fondo monetario, la prima di quattro in scadenza nel corso del mese. Piazza Affari, che in avvio lasciava sul terreno l’1,5%, ha aggravato le perdite arrivando a segnare, in chiusura, -2,09%. Peggio solo Atene, che ha archiviato la seduta a -3,11 per cento. Il listino italiano è stato appesantito dai titoli bancari, anche se Mps nel giorno di avvio dell’aumento di capitale da 3 miliardi non è riuscita a fare prezzo per gran parte della giornata. A testimoniare il timore degli investitori è stato però soprattutto il mercato obbligazionario: il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni dell’Italia, che alla Grecia ha prestato 40 miliardi, ha aperto all’1,84% e alle 13 ha sfondato il tetto del 2%, cosa che non accadeva da metà dicembre. Con il risultato che il differenziale (spread) rispetto al Bund tedesco, che rende lo 0,61%, si è allargato a 144,8 contro i 125 di venerdì 22, per poi chiudere a 139: non è mai stato così ampio da gennaio. Bisogna considerare che dall’avvio del quantitative easing della Bce, a marzo, fino alla fine di aprile, il tasso di interesse sui Btp non ha mai superato l’1,5%. Pesante anche Madrid, che ha perso il 2,01%. In questo caso però pesa anche il successo elettorale di Podemos (il partito euroscettico erede degli indignados) alle elezioni amministrative e regionali. Francoforte e Londra erano chiuse per festività. Rimandato a martedì, quindi, il test dei mercati per la Gran Bretagna, dopo un weekend di polemiche in seguito alla diffusione “involontaria”, da parte della Bank of England, di un documento sui rischi di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, la cosiddetta “Brexit”.

Ma è sulla Grexit che sono puntati ora gli occhi degli altri Paesi Ue, esposti direttamente nei confronti di Atene per quasi 190 miliardi di euro. L’intesa in extremis tra il governo di Alexis Tsipras e i creditori non è affatto esclusa. Lunedì il portavoce dell’esecutivo greco, Gavriil Sakelaridis, ha detto che Atene “vuole essere puntuale” nel corrispondere all’Fmi i rimborsi dovuti – 1,6 miliardi complessivi a giugno – ma deve “prendere in considerazione i problemi di liquidità che ci sono”. “Nella misura in cui saremo in grado di pagare, pagheremo”, insomma. Il Comitato centrale di Syriza, che si è riunito lunedì, ha respinto la richiesta dell’ala estremista del partito di non rimborsare i prestiti al Fmi, nazionalizzare le banche e indire un referendum che darebbe agli elettori il potere di respingere ogni accordo con i creditori su ulteriori riforme di bilancio. Il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis ha invece scritto in un intervento su Project Syndicate che il governo greco è “pronto a realizzare un’agenda che includa tutte le riforme” chieste, ma l’ostacolo nella trattativa resta “l’insistenza sottile ma costante dei nostri creditori sulla maggiore austerità“. Che “impedirebbe il recupero, ostacolerebbe la crescita, peggiorerebbe il ciclo di debito-deflazione e, alla fine, minerebbe la volontà e la capacità dei greci di comprendere il programma di riforme di cui il Paese ha disperatamente bisogno”, continuando “una cura che si è dimostrata, in cinque lunghi anni, peggiore del male”.

Dichiarazioni di principio a parte, molti analisti si aspettano comunque che la Grecia, dopo aver provato a giocarsi il tutto per tutto, alla fine alzerà bandiera bianca e accetterà un piano di riforme scritto dal Brussels group, ovvero la ex troika: Fmi, Commissione Ue e Banca centrale europea. In alternativa potrebbe essere la Cancelliera tedesca Angela Merkel a intervenire per far scendere i “falchi” – tra cui il suo stesso ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble – a più miti consigli. Magari facendo prorogare ancora l’attuale piano di assistenza finanziaria e sbloccando l’esborso almeno di una parte dell’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi che Atene deve ancora incassare.

Se invece dovesse concretizzarsi lo scenario peggiore, con la Grecia che non paga l’Fmi e dopo i canonici 30 giorni di “grazia” finisce ufficialmente in un default non pilotato, le conseguenze sarebbero pesantissime. E’ molto probabile che il governo congelerebbe conti correnti e movimenti dei capitali per tamponare la fuga di liquidità all’estero, che per altro va avanti già da febbraio, dopo la vittoria elettorale di Syriza. L’uscita dall’euro, pur non voluta dalla maggioranza della popolazione e nemmeno dall’esecutivo Tsipras, sarebbe una conseguenza inevitabile. Nelle scorse settimane si sono rincorse indiscrezioni sulla possibilità che per pagare stipendi dei dipendenti pubblici e pensioni vengano introdotti dei “pagherò” (promesse di pagamento) o altri strumenti alternativi e che le banche vengano statalizzate. Crediti e debiti verso l’estero sarebbero comunqeu convertiti in dracme, che si svaluterebbero pesantemente, almeno del 40%. L’inflazione salirebbe alle stelle, riducendo ancora il potere di acquisto dei cittadini già affossato dagli anni di austerity.

Nonostante il contesto macroeconomico più favorevole rispetto a quello del 2012 grazie agli interventi dell’Eurotower, poi, ci sarebbero effetti sugli altri Paesi che hanno adottato la moneta unica. La Grexit, infatti, alimenterà – come sta già facendo, a giudicare dall’andamento dei tassi sui Btp – la speculazione contro i titoli di Stato dei Paesi considerati più deboli. Come l’Italia. Che vedrà così aumentare i tassi di interesse da pagare per rifinanziare il proprio debito. Al contrario saranno ancora una volta premiati i solidi Bund tedeschi. Quanto ai 40 miliardi di prestiti diretti concessi da Roma alla Grecia, la perdita complessiva dipenderà dalle decisioni di Atene, che potrebbe limitare la riduzione del dovuto (in gergo haircut) a una percentuale o fare default sull’intera esposizione bilaterale e tramite il Fondo europeo di stabilità finanziaria.

 

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