Il dibattito su La Buona Scuola – al di là delle polemiche – ha il grande merito di aver riportato in primo piano la necessità di ripensare radicalmente l’approccio italiano all’istruzione. Sono passati troppi anni (ahimè!) da quando frequentavo la scuola in Italia, e ormai, per aver contribuito a progetti di riforma in Uk, ho sicuramente più familiarità col sistema scolastico britannico. Quindi ho le mie idee sui meriti e i demeriti della Buona Scuola, ma me le tengo per me. Perché l’ultima cosa di cui ha bisogno questo dibattito è un’opinione che si basa su informazioni prese a distanza e di seconda mano.

Noto però nei molti commenti su giornali e social media tanti riferimenti al sistema scolastico tedesco, o a quello anglosassone, o a quello scandinavo. E mi sorprende come i paragoni, complicati perché tra sistemi pensati per rispondere alle specificità socio-economiche e culturali di Paesi diversi, siano usati a volte con poca attenzione ai fatti e molto opportunismo teorico.

Certo ai paragoni internazionali è piuttosto difficile resistere, anche perché quasi tutti i Paesi in questo momento stanno cercando di riformare il sistema scolastico. Ci sono due motivi principali per questa corsa alla riforma. Il primo è squisitamente economico. I governi cercano di capire come educare le nuove generazioni perché possano competere nell’economia globale. Ma come si può prevedere con certezza di quali conoscenze tecniche e capacità specifiche ci sarà bisogno tra 20 anni? Il secondo è prettamente culturale. I governi cercano di capire come educare le nuove generazioni in modo che mantengano un senso di identità culturale e allo stesso tempo sviluppino quell’apertura mentale indispensabile per partecipare del melting pot di lingue, teorie e culture che è il nostro secolo. E come si fa a riconciliare standard internazionali e attenzione e stili di apprendimento del singolo studente?

Il problema di base è comune e una risposta semplice a un problema tanto complesso naturalmente non esiste. Quindi i governi, spesso con pressanti limitazioni strutturali e finanziarie, cercano soluzioni più o meno innovative, e, un po’  in tutto il mondo, insegnanti, studenti e genitori dibattono, protestano, e testano.

Le comparazioni, naturalmente, le facciamo anche in Inghilterra, dove ultimamente si tende a cercare ispirazione nei modelli educativi scandinavi. Per esempio, guardando al modello svedese, nel 2011 il governo britannico ha istituito le Free School: scuole primarie e secondarie, pubbliche e quindi finanziate dallo Stato e non selettive ma fondate e gestite in quasi totale autonomia da gruppi di persone (spesso comitati composti da insegnanti e genitori) fondazioni, o società private. Oltre ai finanziamenti dello Stato (in media 4600 sterline per studente, come per le scuole statali tradizionali gestite dai comuni) le Free School possono raccogliere fondi da sponsor o chiedere un contributo volontario ai genitori. Un ente indipendente monitora periodicamente i risultati di tutte le scuole, incluse le Free School, assegnando un punteggio che va da eccellente a insufficiente. Così che anche i genitori possano conoscere la qualità della scuola dove iscrivere, oppure no, i loro figli.

A sentire Matteo Rossetti, fondatore della Thomson House School a Londra, la formula piace a insegnanti, alunni e genitori ma è ancora presto per valutare bene l’impatto di questa sperimentazione scolastica. Anche perché autonomia scolastica in questo caso vuol dire piena libertà nel selezionare (e licenziare) il personale e molta discrezionalità nel programma e metodo d’insegnamento, ma vuole anche dire che se la scuola non riesce a sostenersi con i fondi a sua disposizione o non raggiunge gli standard previsti, viene chiusa senza tanti complimenti.

Paradossalmente, questo modello di autonomia quasi totale che sembra molto promettente in Inghilterra, inizia a scricchiolare in Svezia, dove potrebbe già avere bisogno di essere ritoccato.

Potrebbe funzionare in Italia? Non saprei. Anche perché ci vorrebbero mesi di analisi e studi approfonditi per poter esprimere un parere con cognizione di causa. Il che porta a una domanda fondamentale: da dove iniziare quando si vogliono paragonare sistemi scolastici che sono il prodotto di un approccio educativo molto diverso?

Ho trovato tre risorse che credo potrebbero essere d’aiuto a chi volesse fare analisi comparate basandosi su dati verificati ed esempi internazionali ragionati.

Il primo è Eurydice, un network creato dalla commissione Europea per studiare e raccontare l’approccio educativo dei paesi della Ue, identificare problematiche comuni e confrontare le soluzioni diverse. Su Eurydice si trovano analisi tematiche e valutazioni indipendenti. Miglia di documenti. In pochi minuti su Eurydice scopro che solo la metà dei Paesi Ue ha un programma nazionale di training e supporto professionale per i nuovi insegnanti: il primo giorno di scuola per i nuovi insegnanti in Spagna, Norvegia e Olanda non dev’essere facile! E che l’aggiornamento è un obbligo professionale in Italia e in Uk, è necessario per avere una promozione in Francia ma è facoltativo in Norvegia e Svezia. Scopro anche che l’Italia è uno dei pochissimi Paesi dove una valutazione esterna e a 360 gradi delle scuole non è ancora la prassi e che il progetto pilota Vales, modellato su standard europei e che ha lo scopo di aiutare a definire il futuro Sistema Nazionale di Valutazione è legato alle famose prove Invalsi, boicottate da alcuni  – e con un certo clamore – qualche settimana fa.

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Il secondo poetale è Talis, il programma di Oecd che monitora a livello internazionale la qualità dell’insegnamento basandosi su questionari compilati da scuole campione. I database sono facili da navigare e in poco tempo scopro, per esempio, che il rapporto tra numero di insegnanti e alunni non è necessariamente direttamente correlato al livello di apprendimento. In Korea i 18 alunni per insegnante garantiscono comunque un ottimo piazzamento nelle classifiche PISA, mentre il Portogallo, con un rapporto insegnanti/alunni di 1 a 7, è solo a metà della classifica Pisa.

Scopro poi che gli insegnanti italiani sono i più “maturi” (49 anni in media) e che i più giovani sono gli insegnanti di Singapore (36 anni in media). E magari è anche l’entusiasmo della gioventù che spinge il 93 % degli insegnanti singaporiani a frequentare annualmente corsi di aggiornamento e soltanto il 50% di quelli Italiani a fare altrettanto. Scopro anche (ma questa non è una sorpresa per nessuno) che gli insegnanti italiani hanno un salario inferiore alla media dei colleghi di altri Paesi: l’equivalente di $31,500 all’anno a fronte dei $68,000 annui degli insegnanti Svizzeri e dei $33,000 dei colleghi francesi (fonte: Efficency Index  e Teachers and Head Teachers salaries in Europe). E lo stesso database rivela che la media Oecd e delle ore settimanali di lavoro è di 38 ore (inclusi insegnamento, colloqui, amministrazione, programmazione etc.) e che, secondo i questionari raccolti da Talis, gli insegnanti Italiani lavorano in media 29 ore a settimane, quelli britannici circa 46 ore a settimana ma che i veri stakanovisti sono gli insegnanti cileni: 26,7 ore d’insegnamento, 5 ore di programmazione, 4,1 ore di correzione compiti, 2 ore di progetti extra-curriculari e cosi via per un totale di 53 ore settimanali.

La terza risorsa è Education Gps, un portale specializzato nel raccogliere dati internazionali equiparabili e nel semplificare la comparazione tra politiche educative. Oltre a banche dati e statistiche, il sito offre la possibilità di comparare in modo semplice le politiche educative dei Paesi Oecd. Autonomia scolastica, valutazione del corpo docente, finanziamenti pubblici e misti, ruolo degli organi collegiali, struttura organizzativa dei distretti scolastici, ruolo del dirigente scolastico, filosofia educativa.

C’è tutto!

Buona comparazione.

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