Cinema

Festival di Cannes 2015, Lousiana l’opera estrema di Roberto Minervini per Un Certain Regard

Il suo film nasce dalla sua quotidianità, integralmente coinvolta con gli strati sociali americani agli antipodi di quel Paese dell'Abbondanza che qualcuno ancora crede siano gli States. Drogati, paramilitari, veterani di guerra, stripper, homeless e freak di ogni tipo, ovvero gente in condizioni precarie su base primordiale, intrisa di paura e costantemente bisognosa di qualcuno o qualcosa in cui credere di cui fidarsi

di Anna Maria Pasetti

È un film/documento estremo quello che Roberto Minervini ha donato al Festival di Cannes che lo ha inserito in concorso in Un Certain Regard. E il verbo donare non è scelto a caso: Minervini, marchigiano ma da 10 anni residente in Usa, non è un cineasta di professione, ma di vocazione/missione. Il suo Louisiana – tra le opere più estreme, radicali e importanti sulla Croisette – nasce dalla sua quotidianità, integralmente coinvolta con gli strati sociali americani agli antipodi di quel Paese dell’Abbondanza che qualcuno ancora crede siano gli States.

Drogati, paramilitari, veterani di guerra, stripper, homeless e freak di ogni tipo, ovvero gente in condizioni precarie su base primordiale, intrisa di paura e costantemente bisognosa di qualcuno o qualcosa in cui credere di cui fidarsi. “Io non sono un appassionato di cinema come si è soliti trovare qui a Cannes, vivo questo “mestiere” come foto/videoreporter di guerra, documentando persone che gravitano quotidianamente tra la vita e la morte”.

Fare film per Minervini non è il lavoro che gli permette di vivere in Texas con tanto di famiglia, piuttosto è una missione che vive con rara integrità. “Il mio lavoro è costruire case ecosostenibili, fare questo genere di documentari non mi darebbe da mangiare!”. Di fatto, Minervini non ha peli sulla lingua quanto sull’obiettivo: Louisiana, che uscirà nelle sale il 28 maggio per Lucky Red, si definisce attraverso volti e corpi tra i più scomodi dell’America contemporanea.

La comunità documentata è appunto nella “red Louisiana” e Minervini l’ha compenetrata da vicino -condividendone i tanti dolori e le poche gioie – per averne la chiave di accesso. Tutti tossicodipendenti, marginali alla vita, chiusi un mondo inaccessibile che per identità repubblicana sacralizza le armi, l’esercito, l’orgoglio dell’Eroe a stelle e strisce, il veterano che sembra uscito da una fiction e invece è “fucking real”. Obama è definito “uno stupido negro di merda che fotte i negri stessi”, una stripper incinta viene mostrata mentre si fa di eroina mentre sua madre e il marito sono condannati ad anni di galera: realtà che ai nostri occhi sembrano fantascienza, mentre in quei territori fangosi e torridi rappresentano la normalità.

Roberto Minervini si commuove mentre li descrive “non è facile per me, loro appartengono alla mia quotidianità, una volta che si fidano di te non li puoi mollare, ma a quale prezzo…”. Certo, l’America è un luogo complesso, anzi è “il” luogo più complesso del mondo in quanto a contraddizioni, ma “non saprei dirvi se sia un bel posto dove vivere oggi: io mi ritengo un privilegiato. Ma perdessi il lavoro perderei anche la mia assicurazione sanitaria, cioè sarei un uomo senza più protezione. L’America è una voragine pronta a risucchiarti, bisogna proteggersi”.

Mark e Lisa sono le sue “guide” all’interno di questa comunità ai confini di tutto, intrisa di illegalità ed anarchie: anche loro sono dei junkees, ma dopo aver avuto fiducia gli hanno chiesto persino di filmare la loro intimità. “Sono persone di bontà genuina, primordiale. Hanno un’innocenza per certi aspetti che ti spaventa. La droga è il loro pane quotidiano, si gestiscono così e sono a modo loro l’emblema del cosiddetto pacifismo americano che altro non è che una tolleranza reciproca”.

Una storia struggente universale e americana quella di Roberto Minervini, tanto personale quanto sullo schermo, che ci allontana dalle trivialità tipicamente cinematografiche ma ci avvicina al film quotidiano del concorso, Dheepan del francese Jacques Audiard, forse il miglior transalpino finora passato alla competizione. Vi si racconta a carte scoperte la vicenda di un guerriero Tamil che fugge dal suo Sri Lanka verso la Francia, dove trova ospitalità come rifugiato di guerra. Per facilitare il suo espatrio, si avvale della complicità di una donna e una ragazzina sconosciute ma con le quali “finge” una famiglia di cui lui s’improvvisa padre. Una volta sul territorio francese il trittico dovrà scontrarsi con una realtà tutt’altro che rosea. Senza eccellere, il film presenta un rigore realistico mai banale specie nella caratterizzazione dei tre personaggi, vero punto di forza della pellicola.

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