L’Italia è il Paese europeo sui cui bilanci, negli ultimi anni, hanno pesato di più i contratti derivati sottoscritti in teoria proprio per tutelare lo Stato dal rischio di eventi avversi. A calcolarlo è l’agenzia Bloomberg, che riclassificando i dati Eurostat sulle finanze pubbliche degli Stati dell’Eurozona ha evidenziato come nel periodo 2011-2014 gli swap sul debito pubblico abbiano determinato, per la Penisola, perdite effettive e potenziali per un totale di 16,95 miliardi di euro. Che gli accordi firmati tra il Tesoro e le banche d’affari si siano in più occasioni ritorti contro Roma, traducendosi in esborsi miliardari e quindi in un aumento della zavorra del debito, era già noto. D’altronde i derivati sono per loro stessa natura “scommesse”, e può capitare di perdere. Quel che mancava, però, era un confronto con quel che è avvenuto negli altri Stati che hanno adottato la moneta unica. Il risultato è impietoso: basti dire che solo altri cinque membri dell’Eurozona (Olanda, Austria, Germania, Spagna e Lettonia) hanno registrato perdite negli anni considerati, e per un totale che si è fermato a poco più di 5 miliardi. Berlino, il cui debito pubblico in termini assoluti è il più elevato del Continente, ha contabilizzato perdite e passività per circa 950 milioni. Al contrario la Francia è riuscita a mettere a segno guadagni per oltre 2,7 miliardi in quattro anni e Grecia e Belgio hanno ottenuto benefici per circa 1 miliardo.

Un ottimo esempio di come questi strumenti pensati come armi difensive si siano rivelati un boomerang arriva dal bilancio 2014 della Repubblica italiana. Lo scorso anno, ricorda Bloomberg, gli interessi pagati dall’Italia per finanziare il debito – che a gennaio ha toccato i 2165,9 miliardi di euro – sono scesi di 2,76 miliardi grazie alle misure di stimolo varate dalla Banca centrale europea. Ma a fronte di quel risparmio il Paese ha registrato perdite (effettive e potenziali) per 5,46 miliardi, circa il doppio.

Come riferito in audizione davanti alla Commissione finanze della Camera dalla responsabile della direzione debito pubblico Maria Cannata, lo Stato italiano ha in pancia derivati per circa 160 miliardi di euro, con un valore di mercato (mark-to-market) negativo per 42 miliardi. Di questi il 79%, ha spiegato sempre in commissione Finanze il docente della Bocconi e responsabile analisi quantitative della Consob Marcello Minenna, deriva da contratti “interest rate swap di durata”, di cui “non c’è una definizione in letteratura” ma “andando per esclusione si può ipotizzare che siano swap collegati a Btp, cioè a tasso fisso”. In pratica “assicurazioni” dal rischio di un aumento dei tassi di interesse. Peccato che i tassi, lungi dal salire, a partire dalla fine degli anni ’90 siano progressivamente diminuiti. Il risultato? “Con il ribasso dell’Euribor”, ha spiegato Minenna, “una simile operazione raddoppia gli impegni finanziari dello Stato: dal momento che il mercato dal 2011 è radicalmente cambiato, se gli Irs sono legati ai Btp che rappresentano il 67% dei titoli in circolazione, forse c’è una prima spiegazione dei 33 miliardi di mark-to-market negativo“.

Quanto all’altra finalità invocata dal ministero dell’Economia per spiegare la sottoscrizione di quei contratti, cioè l’allungamento della durata del debito, Il Sole 24 Ore ha ricostruito che “si è passati da una durata media di circa cinque anni e mezzo a una di circa 5 anni e 9 mesi”. Ottantaquattro giorni in più a un costo, ai valori correnti, di 42 miliardi. L’altra incongruenza rilevata dal quotidiano di Confindustria riguarda la tipologia dei derivati prescelti: l’esborso sostenuto nel gennaio 2012 nei confronti di Morgan Stanley, per esempio, è dipeso dalla chiusura da parte della banca d’affari di tre “swaption“, cioè “opzioni a entrare in un contratto swap”. Vendere una swaption, sottolinea Il Sole, “significa far cassa acquisendo rischi potenzialmente illimitati, l’esatto contrario della copertura”. “Come per una polizza assicurativa, con una swaption la copertura è acquisita da chi compra, che per questo paga un premio”, afferma un ex alto funzionario del Tesoro citato dal quotidiano. Una rivelazione che contraddicono la tesi sempre sostenuta dal ministro Pier Carlo Padoan e dai vertici del debito pubblico, secondo cui il fine ultimo di tutte queste operazioni era la “gestione prudenziale” del debito. Una parte di spiegazione, forse, potrebbe risiedere nei rapporti di forza tra le banche d’affari e via XX Settembre, che, almeno negli anni ’90, erano fortemente sbilanciati a favore delle prime: “Le risorse erano limitate e quando ci si presentava a negoziare in due o tre, dall’altra del tavolo si trovavano dieci banchieri assistiti da altrettanti studi legali. E noi eravamo sempre gli stessi a trattare dalla mattina alla notte inoltrata, mentre loro si alternavano mettendo in campo sempre forze fresche”, ha raccontato Roberto Ulissi, all’epoca consulente legale e poi responsabile della Direzione IV del Tesoro.

Venerdì i deputati del MoVimento 5 Stelle hanno presentato un’interpellanza in materia chiedendo al governo se, sulla base dei dati forniti da Eurostat, intenda mettere in atto “nuove misure come un fondo per coprire le perdite potenziali derivanti dai contratti esistenti”. Il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta ha risposto in aula limitandosi però a dire che “in merito ai dettagli informativi sul portafoglio derivati è allo studio una nuova e più efficiente metodologia di ampliamento del set informativo e della sua periodicità”.

 

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