“I colloqui continueranno fino all’ultimo momento”, ha spiegato lunedì il vice-portavoce della Casa Bianca, Eric Schultz. Le ultimi fasi dei negoziati sul nucleare iraniano non rappresentano infatti soltanto l’ultima spiaggia per scongiurare l’eventuale possibilità che l’Iran diventi una potenza atomica. Sul nucleare iraniano si gioca anche l’ultima fase della presidenza di Barack Obama e buona parte dell’eredità che il presidente lascia all’America.
Obama ha sin dall’inizio concepito questi negoziati come un modo per cambiare direzione alla politica estera americana in Medio Oriente: da una strategia di coinvolgimento militare a un approccio che privilegi la diplomazia. Il presidente lo disse del resto già nel 2008, ai tempi della prima campagna elettorale per la presidenza. Alla domanda: “E’ disponibile a incontrare separatamente, durante il suo primo anno di presidenza, i leader di Iran, Siria, Venezuela, Cuba, Corea del Nord?”, Obama rispose: “Sì, lo sono. E lo sono perché la nozione di punire questi Paesi non parlandogli – che è stato il principio guida dell’amministrazione Bush – è ridicola”.
L’apertura dei negoziati con i Paesi del famigerato “asse del male” era concepita da Obama, nel 2008, come un segmento di un più generale ribaltamento della politica estera. Di questo cambio di direzione facevano parte il definitivo ritiro dall’Iraq, il processo di graduale disimpegno dall’Afghanistan, un atteggiamento di ascolto e di apertura al mondo islamico – esemplificato dal famoso discorso all’università del Cairo -, l’appoggio a tutti quei movimenti, nel mondo arabo, che chiedevano maggiore democrazia.
Sappiamo dove è finito quel sogno. In Siria gli Stati Uniti sono stati a lungo oscillanti tra l’appoggio ai ribelli e il timore di vedere crescere nuovi movimenti di radicalismo islamista; le primavere arabe si sono concluse con un ritorno al potere di regimi dittatoriali o con lo sprofondare dei Paesi in sanguinose guerre civili; in Iraq le forze americane sono state costrette a tornare a combattere, mentre – è notizia di pochi giorni fa – in Afghanistan non ci sarà più il ritiro programmato dei soldati Usa. Se a questo si aggiunge la scellerata politica dell’uccisione di presunti terroristi mediante i droni – una politica che continua a fare vittime civili e che rinfocola l’indignazione popolare – e il fallimento dell’iniziativa diplomatica in Palestina, si può misurare la difficoltà, secondo alcuni il fallimento, in cui versa la strategia internazionale di Obama.
Ecco perché la riuscita dei negoziati con l’Iran diventa essenziale. Attraverso un accordo con Teheran, il presidente spera non soltanto di scongiurare la minaccia del nucleare. Attraverso un accordo, Obama vuole avviare un processo di riavvicinamento con quella che è ormai una potenza regionale non più eludibile. L’Iran ha interessi e larghi settori di influenza in Yemen, Iraq, Siria, Libano. La non-normalizzazione dei rapporti con Teheran significa un Medio Oriente continuamente segnato da tensioni, rivolte, disordini, aspettative di pace deluse. “Bisogna prenderne atto, l’Iran è ormai in ascesa”, ha detto qualche giorno fa Hillary Mann Leverett, consigliere sulle questioni iraniane per i presidenti George W. Bush e Bill Clinton. Obama sembra averne preso atto: per allontanare la minaccia iraniana, è disposto a riconoscere il nuovo ruolo di potenza di Teheran.
La scommessa di Obama si regge però su una premessa necessaria: che l’accordo a Losanna non soltanto venga raggiunto, ma anche rispettato. Cosa per nulla certa, come ha spiegato Mark Dubowitz, executive director della Foundation of Defense of Democracies, e che alimenta critiche e polemiche all’interno degli Stati Uniti. “La politica di Obama in Medio Oriente è testardamente ignorante”, ha detto qualche giorno fa Michael Flynn, ex-direttore della Defense Intelligence Agency. Per molti è infatti rischioso dare all’Iran lo status di interlocutore. Il regime degli ayatollah, secondo questa interpretazione, non smetterà di essere una fonte di instabilità nella regione, nonostante le aperture della Casa Bianca. Quindi, tanto vale far fallire i negoziati. L’aspetto più minaccioso di questa valutazione, per Obama, è che essa non è condivisa soltanto dalla quasi totalità del mondo repubblicano e conservatore, ma anche da ampi settori
di quello democratico. Non è un caso che gran parte dei senatori democratici, anche nel caso di esito positivo dei negoziati a Losanna, voglia avere 60 giorni per approvare, o rifiutare, l’accordo.
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