I hope I die before I get old”. Siamo a metà degli anni sessanta quando “My Generation” degli Who esplode lungo le strade di Londra diventando l’inno di un’intera generazione. Il testo che contrappone gli adulti ai giovani e l’arrangiamento esplosivo creano un’alchimia in grado di resuscitare il fuoco vitale del vecchio rock’n’roll. Cinquant’anni dopo, sul palco della o2 Arena di Londra, gli allora ventenni Roger Daltrey e Pete Townshend sembrano avere la stessa carica incendiaria di un tempo. Le date londinesi del tour “The Who Hits 50!” erano in programma per lo scorso dicembre, ma a cause di un’infezione alla gola che colpì Daltrey, vennero posticipate a marzo. Le due ore di concerto eseguite tutte d’un fiato, hanno confermato che l’attesa non è stata vana.

Sul palco ad accompagnare Daltrey e Towhnshend ci sono anche Pino Palladino al basso, il figlio di Ringo StarrZak Starkey – alla batteria e il fratello di Townshend – Simon – alla chitarra; oltre a Loren Gold, Frank Simes e John Corey. Il concerto si apre con il riff crudo di “Can’t Explain”, primo singolo originale uscito nel 1965, proprio come la sua coetanea “My Generation”. Si prendono brani soprattuto dagli album “Tommy”, “Meaty, Beaty, Meat and Bouncy” e “Who’s Next”; ma non mancano “I’m One” e la vertiginosa “Love, Reign O’er Me” da “Quadrophenia”. In “Love, Reign O’er Me” Daltrey è come sempre commovente, il suo è un ruggito che si fa invocazione e l’energia si sprigiona in pieno anche quando – a tratti – la potenza della voce rimane ingabbiata nelle intenzioni.

Cinquant’anni sono passati anche per la voce di Daltrey e pretendere di avere le stesse estensioni vocali di un tempo sarebbe solo una risibile ambizione. Ma questo diventa un piccolo e marginale dettaglio se paragonato all’intensità con la quale gli Who continuano a tenere il palco, una stonatura su “Behind Blue Eyes” diventa quasi una divagazione romantica e le splendide immagini che scorrono sullo schermo dietro la band incorniciano ogni canzone, rendono il concerto completo. Alla lunga scaletta si aggiungono molti aneddoti di Daltrey e Townshend, i quali non mancano di ricordare i compagni assenti: il bassista della band John Entwistle e il batterista Keith Moon, quest’ultimo “grande fan dei Beach boys” – ricorda scherzosamente Daltrey – “tanto che avrebbe lasciato anche gli Who, pur di suonare con loro”.

Il finale è travolgente: “Baba O’Riley”, “Won’t Get Fooled Again” e “Magic Bus”; la prima canzone oltre ad essere uno dei brani più famosi della band è anche uno dei più peculiari, nel quale le sperimentazioni di Townshend sono riuscite a dar vita ad un’introduzione unica. Roger Daltrey ha definito questo tour “l’inizio di un lungo addio” e le possibilità che questo sia davvero l’ultimo sono decisamente alte, ma l’essere riusciti a far passare davanti agli occhi degli spettatori cinquant’anni di musica, eseguendola tutta d’un fiato e con una grinta tale da generare rispetto in qualunque adolescente, resterà impagabile. Gli Who hanno appena spedito un’ultima cartolina da un’epoca incredibilmente ricca di ispirazione.

 

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