Al momento dell’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica italiana si sono registrate le più varie opinioni riguardo alla sua volontà e capacità di far rispettare fino in fondo lettera e spirito della Costituzione italiana, oggetto da tempo di tentativi di snaturamento, da ultimo ripresi con forza da Matteo Renzi.

Mentre i più, probabilmente a ragione, convergono nel riconoscere a Mattarella doti di personale rettitudine e fedeltà alla Costituzione, c’è infatti chi sostiene che, ciò nonostante, il nuovo presidente non si opporrà più di tanto a Renzi, per ragioni sia di carattere temperamentale che di concezione del suo ruolo istituzionale e chi invece, valorizzandone la forte fibra intellettuale di giurista poco incline a compromessi poco onorevoli, è pronto a scommettere che il nostro darà filo da torcere a colui che lo ha fatto eleggere.

Ipotesi e chiacchiere, come se ne fanno tante da noi e altrove. Si offre però ora agli osservatori più attenti una prima preziosa occasione per verificare sul campo le doti effettive di Sergio Mattarella. E si offre in relazione a un terreno non di natura immediatamente costituzionale, come le leggi in corso di approvazione relativamente al declassamento del Senato o, per molti versi, la legge elettorale, ma sicuramente costituzionale dal punto di vista sostanziale, se è vero che la nostra Repubblica è o dovrebbe essere, a norma dell’art. 1 della Costituzione “fondata sul lavoro”.

L’occasione viene offerta dalla lettera redatta dall’Associazione dei giuristi democratici e da oltre settanta avvocati e docenti giuslavoristi, che chiede a Mattarella di respingere al mittente (governo Renzi) il decreto attuativo della legge delega 10 dicembre 2014 n. 183 “recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, nel testo licenziato dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 20 febbraio 2015.

Il decreto attuativo in oggetto, infatti, presenta evidenti vizi di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3 e 117 della Costituzione, nonché per avere palesemente travalicato i limiti della delega posta con la legge delega citata.
In particolare la lettera afferma che: “Ciò che accomuna, pur nella assoluta diversità di opinioni e di appartenenze politiche, tutti coloro che aderiscono a questa iniziativa è la constatazione dell’arretramento delle tutele che l’emanando decreto finirebbe per attuare, riportando le garanzie giurisdizionali offerte a quella parte di concittadini–lavoratori destinatari della nuova disciplina ad una soglia di azionabilità della lesione dei loro diritti derivanti dal rapporto di lavoro che appare, al più, paragonabile a quella vigente nel nostro ordinamento prima della introduzione dello Statuto dei diritti dei Lavoratori di cui alla legge 20 maggio 1970 n. 300. Conseguenza che, già di per sé considerata, non può ritenersi legittimata dalla giustificazione che essa costituisca il frutto di opzioni di politica legislativa, come tali insindacabili, ove si rifletta che si tratta di scelte che, anche solo considerando l’azzeramento di un così (temporalmente) rilevante processo evolutivo dell’ordinamento lavoristico, inevitabilmente entrano in rotta di collisione, da un lato, con il diverso quadro di riferimento nel frattempo introdotto dalla vincolante disciplina comunitaria e, dall’altro, con la diversa disciplina garantita dall’ordinamento, di fronte ad identiche fattispecie risolutorie, a quei cittadini-lavoratori che non siano riguardati dalla novella per il solo fatto che il loro rapporto di lavoro a tempo indeterminato, avente per il resto identica natura e disciplina, sia stato stipulato in qualunque data antecedente all’entrata in vigore del decreto”.

Caro presidente, a Lei la parola. Rinviando il decreto al governo Renzi, come richiesto dai giuristi democratici, Ella potrà dimostrare di essere non solo un eccellente giurista ma, ciò che più conta, un coerente difensore della legalità costituzionale e dei diritti dei lavoratori.

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