Altri aspetti d’illogicità e contraddittorietà presenti nelle motivazioni della sentenza d’appello del processo alla Commissione Grandi Rischi (nella prima parte di questo post ne ho analizzato altri) riguardano proprio la consulenza antropologica che ho svolto per l’accusa (che ha fornito il nesso causale per la condanna in primo grado di tutti gli imputati).

Accogliendo in modo acritico gli argomenti riportati nelle impugnazioni della difesa, la Corte d’appello respinge l’impianto della mia consulenza, pretendendo di confutarlo nei seguenti modi:

  1. senza sottoporre ad analisi critico-argomentativa nemmeno un rigo della perizia;
  2. confondendo dei metodi di validazione scientifica;
  3. puntando sul mio vissuto personale invece che sulla mia competenza professionale.

Il primo punto, oltre a delineare un modo bizzarro di invalidazione autoritaria di un apparato teorico, rivela delle illogicità e contraddizioni presenti nel dispositivo della sentenza. Leggendo le motivazioni scopro che il modello delle rappresentazioni sociali sarebbe stato teorizzato nientedimeno che dal sottoscritto, e che sarebbe del tutto privo di validità scientifica.

Pur essendo onorato da tale attestazione, devo precisare che non ho inventato questa teoria: lo ha fatto lo psicologo sociale Serge Moscovici e la sua validità scientifica è da diversi anni pressoché indiscussa e universale: è presente praticamente in tutti i manuali di psicologia sociale, e non solo, come cardine della disciplina (con buona pace delle stroncature, non si capisce in base a cosa, della difesa e della Corte d’appello). Quello che ho fatto è stato intuire la sua applicabilità alla situazione aquilana. In sintesi estrema questa teoria spiega che, nelle società complesse, la conoscenza scientifica può diventare, nel suo uso sociale, una fonte di verità pressoché assoluta, paragonabile a quella della religione nelle società non secolarizzate (riconosciamo alle teorie scientifiche un valore primario di autorevolezza che si traduce in persuasività culturale, per cui il senso comune tende a formarsi a partire da rappresentazioni sociali della realtà mutuate dalla scienza).

L’apice d’insensatezza però non sta tanto in questa modalità di delegittimazione, ma nel fatto che, in modo del tutto illogico e contraddittorio, la Corte d’appello, dopo aver derubricato per scomunica autoritaria questa teoria come non scientifica, di fatto la prende e la usa contro De Bernardinis. Vediamo. Il vice capo della Protezione civile è condannato specificando che “non è necessario fare ricorso alla teoria delle rappresentazioni sociali” in quanto la sua condotta avrebbe avuto “incidenza causale diretta” nella formazione dei processi volitivi di alcune delle vittime del terremoto. Per quanto la logica possa essere forzata con la retorica, dato che De Bernardinis non ha ordinato alle persone di restare a casa, né le ha legate ai letti una ad una, il concetto di causalità diretta risulta del tutto inappropriato per descrivere una relazione tra una diagnosi rassicurante e delle condotte sociali.

Non solo: se pare davvero difficile concepire che molti aquilani siano stati persuasi a restare a casa nonostante due forti scosse, non attraverso una rappresentazione scientifica e perciò autorevole di situazione rassicurante, ma in base a una misteriosa forza di “causalità diretta”, è palesemente contraddittorio che la Corte d’appello, dopo aver screditato la mia consulenza, giudichi colpevole De Bernardinis usando il nesso di causalità espresso nella stessa, a partire dalla teoria delle rappresentazioni sociali (lo fa richiamandosi espressamente – a pagina 272 – alla persuasività dei messaggi in funzione dell’autorevolezza della fonte, e all’autorevolezza della scienza nella nostra società).

In sintesi la Corte d’appello afferma che non è necessario far ricorso al modello delle rappresentazioni sociali sul piano retorico, ma fa ricorso al modello delle rappresentazioni sociali sul piano logico. Una posizione limpidamente contraddittoria.

Il secondo punto d’illogicità che emerge dall’operazione di delegittimazione del mio lavoro riguarda una confusione epistemologica tra metodi di validazione scientifica. La Corte – accogliendo anche stavolta acriticamente un’affermazione della difesa – sostiene che la mia consulenza possa essere invalidata in quanto carente di criteri di “controllabilità”, “falsificabilità” e “verificabilità”. Siamo qui di fronte a una riproposizione del noto pregiudizio proto-positivistico in base al quale si pretende un completo assorbimento epistemologico delle scienze umane nelle scienze naturali. Un pregiudizio che anche sul versante umanistico si riverbera in una confusione tra metodi quantitativi di tipo sociometrico e metodi qualitativi (come ho già discusso in un precedente articolo), quale l’approccio antropologico che ha orientato il mio lavoro di consulenza, al fine di fornire un nesso di causalità psichica. Che la difesa si accontenti di certe affermazioni non può stupire, lascia perplessi il fatto che la Corte le faccia proprie, ignorando che in base a tali precetti tutte le scienze che non ricadono entro leggi fisico-matematiche quantitative, e in un piano di oggettivabilità strettamente empirico, dovrebbero essere bandite dalle aule dei tribunali. Viceversa – e quindi in contraddizione rispetto alle conclusioni della sentenza d’appello – da tempo la giurisprudenza nazionale e mondiale contemporanea si serve abbondantemente di consulenze che riguardano nessi di causalità psichica, ovviamente non controllabili empiricamente.

Il terzo punto concerne una modalità d’invalidazione degli argomenti che propongo, attraverso la tecnica del salto a piè pari degli stessi e la scelta di privare di credibilità la mia competenza professionale a partire dal mio vissuto personale (che è, né più e né, meno che la strategia retorica dell’argumentum ad hominem). Qui il nucleo teorico della mia tesi (una rassicurazione pseudoscientifica di “non terremoto” colonizzò il senso comune aquilano portando a una diminuzione della percezione del rischio che si tradusse in un’accresciuta esposizione al pericolo, concausando molte delle morti del terremoto) è accuratamente evitato. Viceversa le motivazioni mostrano un’attenzione ossessiva rispetto al mio vissuto e a dettagli secondari, quali una bagarre in aula con gli avvocati della difesa, in cui, come se ciò possa inficiare il mio lavoro, mi viene contestato di aver selezionato gli elementi di colpevolezza (come se, nel ruolo di perito per l’accusa, per dimostrare una condotta colpevole non dovessi selezionare gli elementi di colpevolezza).

Se l’idea che la consulenza che ho svolto si fondi solo sulla mia esperienza personale è falsa su un piano di mera oggettività (nel testo di consulenza che ho redatto interpreto una serie di testimonianze processuali attraverso una serie di apparati teorici, basterebbe degnarsi di leggerlo) a un diverso livello rimanda a una questione spesso discussa dentro e fuori questo processo. Non è mancato chi ha rivolto l’argumentum ad hominem contro l’intera cittadinanza aquilana, in una strategia di “colpevolizzazione della vittima”: lo stereotipo che gli aquilani, in quanto terremotati, sarebbero inattendibili, non solo perché traumatizzati (le “menti fragili” di cui parlava Berlusconi), ma poiché mossi da una meschina pulsione a condannare degli scienziati tanto illustri quanto innocenti solo per trovare un capro espiatorio su cui sfogare il senso di colpa. Questo perché, stando a un motto sismologico, “non sono i terremoti a uccidere ma le case”, quei morti sarebbero unicamente colpa delle case e di chi le ha costruite male.

Il punto è che in questo processo l’accusa non ha mai affermato che le vittime sarebbero state causate solo da quelle rassicurazioni, ma ha sostenuto che siano state concausate anche da esse. Basta semplicemente prendere la formula principale della disastrologia (una combinatoria che dice che un disastro dipende dall’agente d’impatto per i fattori di vulnerabilità e quelli di esposizione) per capire che le persone non muoiono né solo per l’impatto di un terremoto né solo per la vulnerabilità delle case, ma per la combinazione tra un terremoto (impatto), degli edifici che crollano (vulnerabilità) e il trovarvisi dentro (esposizione).

Questa vicenda dovrebbe far capire che quel motto – rozzamente monocausale e comodamente tecnocentrico – non è altro che una credenza pseudoscientifica da correggere: “ad uccidere sono i terremoti, le case e l’esserci dentro”. Così si risolve e rovescia anche la questione della presunta ricerca di un “capro espiatorio” (termine che, per la precisione, indica una vittima sacrificale a cui vengono attribuite surrettiziamente tutte le colpe di un evento nefasto, tutte, non solo qualcuna): se l’accusa non ha mai voluto ascrivere tutte le colpe agli esperti (la gente è morta anche perché è stata rassicurata), la difesa ha invece spesso voluto scaricare tutta la colpa sulla vulnerabilità degli edifici (nell’idea che la gente sarebbe morta solo perché le case erano costruite male). Viceversa, fortunatamente, quella notte la quasi totalità degli edifici aquilani ha salvato chi vi dormiva dentro, spesso perché rassicurato dall’idea che il terremoto non sarebbe arrivato.

Il punto è che, sulla soglia tra il vivere o il morire, nel terremoto dell’Aquila quella rassicurazione ha avuto per molti un peso analogo a quello di una struttura fuori norma nell’amplificare la disastrosità del terremoto.

La sentenza d’appello in sostanza recepisce che quella notte delle persone morirono anche a causa di quella rassicurazione, ma – poggiando su argomentazioni giuridiche illogiche e contraddittorie – afferma che tale rassicurazione sia addebitabile esclusivamente al solo De Bernardinis (che a questo punto si configura come un capro espiatorio il quale, spogliato del blasone di “scienziato”, si accolla tutte le colpe del gruppo).

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