Il 4 Gennaio i giornali italiani riportavano con un po’ di incredulità – e non senza qualche nota di ironia – che il quotidiano britannico The Guardian cerca un nuovo direttore e lo fa con una semplice inserzione nella sezione “lavoro” del suo sito. Tutti hanno visto nella trasparenza del processo e nella sobrietà dell’annuncio la firma di quella meritocrazia britannica che tanto invidiamo dall’Italia e che spinge tanti di noi a cercare fortuna in Uk.

guardian

Il 9 Gennaio pochi giornali riportavano con lo stesso entusiasmo una notizia tutto sommato simile. Questa volta pubblicata nella sezione “lavoro” del settimanale The Economist, e che pubblicizza 20 posti da direttore per alcuni dei più importanti musei e poli archeologici d’Italia. Questa volta l’iniziativa – annunciata dal Presidente del Consiglio e dal Ministro Franceschini– suscitava, nel migliore dei casi, scetticismo appena velato.

teh economistLe critiche che sento e leggo partono dal bando, perché non si specifica che tipo di laurea i potenziali direttori debbano avere. Ma davvero è importante cosa si è studiato a vent’anni quando chiaramente a fare domanda di lavoro saranno professionisti più o meno all’apice della carriera e che dovranno comunque dimostrare competenza ed esperienza professionale nel settore?

Il direttore del British Museum, Neil MacGregor, era avvocato, prima di decidere di cambiare strada e dedicarsi alle arti. E il direttore della Tate, Nicholas Serota, ha studiato economia, prima di appassionarsi alla storia dell’arte. Nel 2013 il British Museum ha avuto quasi 7 milioni di visitatori e ha raccolto oltre 54 milioni di sterline in donazioni. Alla Tate, nel 2014 meno del 40% dei fondi proveniva dalle casse dello Stato, e dal 2011 al 2014 ha investito oltre 39 milioni di sterline nell’acquisizione di nuove opere. Naturalmente, come per tutti i musei pubblici in Uk, l’ingresso è gratuito.

Tutto sommato, sapere come generare fondi o come interpretare un decreto legge non sono peccati tanto gravi, neppure in ambito museale. C’è anche chi inorridisce all’idea che alla guida della Galleria Borghese, per fare un esempio a caso, potrebbe non esserci un autoctono. Ma siamo davvero tanto snob da credere che solamente chi è nato e cresciuto tra affreschi rinascimentali e rovine romane possa davvero cogliere la quintessenza dell’arte italiana e valorizzare con dedizione il nostro splendido patrimonio culturale?

Il direttore del Victorian & Albert Museum, fondamenta della Grande Esposizione del 1851, espressione emblematica dell’impero britannico e pinnacolo della cultura Vittoriana, è Martin Roth, tedesco. Il direttore della Serpentine Gallery, istituzione simbolo dell’arte contemporanea e dell’architettura d’avanguardia londinese è Hans-Ulrich Obrist, svizzero.

Il V&A genera un surplus da anni ed è ora in grado di spendere parte dei guadagni in programmi comunitari che rivitalizzano il legame tra museo, cittadini e associazioni culturali di quartiere. La Serpentine Gallery ha tra i suoi obiettivi quello di rafforzare la relazione tra artisti locali e internazionali e le persone che vivono e lavorano nel quartiere, con un’attenzione particolare ai residenti anziani.

No, questi due direttori non hanno snaturato i musei loro affidati. Ne capiscono e amano l’anima tutta britannica. Valorizzano il legame con la cultura e le comunità che i musei celebrano e raccontano. Sono custodi dei valori e del patrimonio delle istituzioni di cui sono oggi a capo.

I critici più scettici – e magari ne hanno visto troppe per non essere un po’ cinici – invece non si fidano del processo e della commissione (non ancora nominata) che lo condurrà. Si aspettano immancabili favoritismi, nomine deludenti e selezioni approssimative. Io invece, leggendo tra le righe dell’annuncio sull’Economist, non mi aspetto forse una rivoluzione, ma sicuramente vedo un’opportunità importante. Una ventata di italica sobrietà e trasparenza che possa magari portare i semi di quel rinascimento culturale e materiale di cui tanto abbiamo bisogno. Come in un auspicio, guardo ai segni incoraggianti: crescita sia di visitatori (+ 6,2%) che di introiti (+ 7%) dei musei statali nel 2014.

E non posso non guardare con ottimismo all’idea di talenti nostrani in una staffetta con eccellenze internazionali. Come succede al Museo Egizio di Torino, dove l’ottimo Christian Greco dal Museo delle Antichità di Leiden è arrivato a dare il cambio all’ottima Eleni Vassilika, a sua volta appena trasferitasi in Uk al National Trust.

È lo stesso ottimismo mi fa credere che efficienza nella gestione museale non debba per forza tradursi in “aziendalizzazione senz’anima”. E che servizi per i visitatori non debbano necessariamente coincidere con “mercificazione bieca della cultura”. Incarichi di tanta importanza devono essere assegnati ai candidati migliori. Competenza, visione, valori e passione per il nostro patrimonio culturale sono essenziali – nazionalità e diplomi di laurea sono solo dettagli.

Sembra che solo 190 dei 420 musei statali italiani abbiano un bar o un ristorante per i visitatori. Nel 2013 il ristorante del Moma di New York ha incassato da solo più di tutti i musei italiani insieme. Davvero preferiamo vedere lo spirito e la storia del nostro Paese andare in rovina perché offrire una bibita a un turista a fine visita ci sembra una cosa di cattivo gusto?

Gestione oculata e moderna non vuol dire che la Reggia di Caserta verrà trasformata nel castello della Bella Addormentata di Disneyland. Ai 20 nuovi direttori, viene invece chiesto di tradurre efficienza e innovazione in un’esperienza indimenticabile per il visitatore che ha attraversato mezzo mondo per vedere i nostri capolavori. E viene loro chiesto di far riscoprire agli italiani la nostra arte, e farli reinnamorare della cultura – perché tutti possano sentirsi a casa loro nei musei e nelle gallerie d’Italia.

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