“Contro ragione credere ancora” è un documentario, realizzato con Matteo Cavejari e Lara Perbellini, fatto di una carrellata d’immagini scomposte e disarticolate, di colori e suoni catturati in presa diretta con una piccola telecamera durante un laboratorio teatrale che ho tenuto nel carcere di Montorio Veronese e conclusosi ai primi di luglio.

Qualsiasi estetica filosofica è qui priva di senso: in questo video-racconto il tentativo è infatti di recuperare alla verità esperienze creative spesso relegate a categorie quali bello/brutto, mortificate da elaborazioni estetizzanti di superficie che allontanano il senso complessivo.

Le diverse esperienze di persone e artisti che si avvalgono dei linguaggi creativi in luoghi quali psichiatria, carcere ecc., cercano la molteplicità dell’esperienza umana, nonostante tutto. In un tempo di tecnicismo esasperato, di scientismo metodologico che riduce la verità dell’essere umano ad un ambito di conoscenza misurabile (consiglierei in tal caso di addentrarsi nel pensiero di Hans-Georg Gadamer) sottrarre spazi simbolici alla contemporanea attitudine uniforme dell’essere è quasi più facile da farsi in luoghi di confine invece che nell’attuale marasma turbo neo-liberista.

Il carcere è luogo destabilizzante ed estenuante dove il tutto si fonda sulla legittima imposizione di norme a statuto disciplinare che istituzionalizzano la vita. Fare teatro lì dentro è anche la possibilità di un proficuo per quanto sofferto interrogarsi sul senso delle cose nella zona limite perché capita che il pensiero al riparo di una vita presunta rassicurante, al centro, si ottunda e restringa il campo delle proprie elaborazioni.

Con detenuti e detenute abbiamo utilizzato il teatro, ma è davvero riduttivo rinchiudere nella definizione “laboratorio teatrale” tutto quello che è successo.

Per paradosso ciò che oggi fuori uniforma, spesso in modo patetico, l’espressione umana, in carcere ha invece poca presa: è un insospettabile e lancinante luogo di difesa di singolarità e molteplicità che si riflette nei corpi, nei diversi accenti e lingue, nelle arrese posture di corpi che non hanno una reputazione da ostentare, negli incontri a minuti contati che precedono e chiudono il laboratorio, nell’accompagnare attori e attrici fin sulla soglia del cancello di sezione che li porterà in cella.

Il teatro in carcere non è allora solo una possibilità creativa ma è anche uno spazio d’invenzione di spiccioli dispositivi d’umanità privi dei modi un po’ superficiali e utilitaristici che cadenzano il fuori. Lo si comprende anche soltanto a partire da strette di mano sentite per davvero, perché poi non ci si vede più per almeno una settimana. Telefoni o social network non possono creare l’illusione di una vicinanza in un luogo d’esilio affettivo, dove l’importanza delle relazioni e degli affetti è urgente e vive dell’immediatezza.

La reclusione è smarrimento di senso, chi ne entra in contatto da uomo libero è chiamato ad interrogarsi sul lavoro del negativo, su come sia possibile una costruzione di possibili alternative perché la vita delle persone recluse sia ancora desiderata d’essere vissuta nel presente e nell’immediato futuro.

In un universo regolato dal metaforico qual è il teatro, il reale assoluto e coatto che è il carcere sfuma per un paio d’ore: si rinviano all’universo magico/rituale, al rarefatto e molteplice mondo della poesia e della prosa d’autore istanti in cui l’essere s’immerge in emozioni lontane dal metallico sottofondo delle cose penitenziarie, non per poterle scansare ma semmai per trovarne varchi spirituali, d’altra natura.

Nella strana mescolanza tra finzione e realtà una buona drammaturgia permette all’una d’infiltrare l’altra: ne nasce spesso una strana miscellanea di brutalità e bellezza, dove le allegorie possono quanto meno suggerire nuove chiavi di lettura e possibili metamorfosi.

Questo altrove del creativo non è da un’altra parte. Nessuno è orfano di simboli, perfino in prigione, ma disabituati alla capacità connaturata all’umano di scorgerli e interpretarli, di trarne un qualche beneficio: li troviamo il più delle volte già precotti e serviti.

E allora sottrarli anche solo per gioco all’assolutismo della norma e della codificazione, rappresenta un’opportunità d’evasione e rigenerazione di pensiero dalle sottili o evidenti prigionie dell’oggi, dentro o fuori che siano.

 

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