Dal primo gennaio niente più trapianti di organi dai condannati a morte. A dirlo è Huang Jiefu, direttore del Comitato cinese per i trapianti e le donazioni di organi, ripreso da tutti i media di Stato. I principali centri di trapianto già non ne fanno più uso, ha aggiunto. Una notizia che riappare ciclicamente da qualche anno, che denota una volontà che si scontra con un problema pratico enorme. Per motivi di carattere religioso e culturale i donatori dell’ex impero di mezzo sono quasi inesistenti e gli organi espiantati ai detenuti giustiziati hanno supplito per anni a circa due terzi delle operazioni.

Gioiscono le associazioni per la difesa dei diritti umani che hanno sempre criticato Pechino per la scarsa trasparenza in materia di donazioni e soprattutto per questa pratica. Ma il problema della reperibilità degli organi rimane enorme. Si calcolano 10mila trapianti l’anno e 300mila persone in lista d’attesa (e solo 169 ospedali abilitati). Nella Repubblica popolare solo 0,6 persone su un milione sono donatori volontari (contro i 37 della Spagna e i 19,6 dell’Italia). Da quando la Cina ha aperto alla donazione volontaria di organi nel 2010, hanno donato appena 1500 persone. Secondo Huang Jiefu si nota la tendenza in aumento del numero dei donatori, ma è chiaro che la popolazione cinese va ancora sensibilizzata sull’argomento.

Il punto è che i cinesi sono culturalmente restii a donare gli organi. Nonostante sessant’anni di comunismo la popolazione continua ad avere un approccio tra il filosofico e il religioso alla morte e l’idea di donare gli organi di una persona cara che sta morendo non piace quasi a nessuno. Secondo diversi medici chirurghi, in molti si rifiutano anche di contemplarne la possibilità a parole. Da quando è cominciata la sperimentazione i numeri sono sì in crescita, ma rimangono cifre ridicole se comparate al numero degli individui che ne hanno bisogno. Dati più recenti non ce ne sono ma è un dato di fatto che, almeno fino al 2012, gli organi dei condannati giustiziati rappresentavano il 64 per cento dei trapiantati.

La carenza di organi aveva portato anche a un fiorente mercato nero che il governo aveva provato a limitare nel 2007 proibendo il trapianto da esseri viventi che non siano famigliari diretti di chi ne ha bisogno. Ma ancora nel 2012 le cronache hanno riportato di bande di malviventi che compravano reni dalla povera gente per 2500-3500 euro (un rene per un iPhone, titolarono all’epoca) con la connivenza di medici corrotti. Ma d’altro canto le organizzazioni per i diritti umani si sono sempre dette preoccupate dell’espianto dai condannati. Più difficile rispettare gli standard igenici e molto facile costringere la persona a donare o addirittura a espiantagli gli organi senza il loro consenso. Alcuni hanno addirittura insinuato il sospetto che le tempistiche delle condanne a morte fossero direttamente influenzate dalla necessità di organi degli ospedali.

C’è da tener conto però che la Cina sta lavorando anche per ridurre il numero delle condanne a morte. Il Paese attualmente applica la pena di morte a 55 reati, ma con le nuove misure varate a fine ottobre potrebbero ridursi a 46. Il numero dei condannati giustiziati ogni anno è tenuto segreto dallo Stato, ma secondo la fondazione Dui Hua, una nonprofit con sede a San Francisco, nel 2013 ci sono state 2400 esecuzioni (contro le 778 complessive del resto del mondo). Comunque il 20 per cento in meno rispetto all’anno precedente e quasi l’80 per cento in meno rispetto al 2002, quando si calcola che in Cina siano state giustiziate 12mila persone.

di Cecilia Attanasio Ghezzi

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